In Italia abbiamo sei milioni di imprese, cioè mediamente un’impresa ogni dieci abitanti. Nessun altro Paese ha una propensione all’imprenditorialità così alta come la nostra. Si tratta,   per la massima parte, di piccole e medie imprese di origine familiare, dove proprietà e controllo coincidoono. Si parla per questo di capitalismo familiare italiano.  La cultura del controllo è molto più diffusa della cultura della partnership, diversamente da quanto avviene in altri Paesi, come ad esempio in Giappone.

Un’indagine, di qualche anno fa, sulle imprese manifatturiere condotta dall’Osservatorio sulle piccole e medie imprese del Mediocredito Centrale, metteva in evidenza che le imprese del campione oggetto di studio erano direttamente controllate per oltre l’80% dei casi da persone fisiche residenti in Italia. Le imprese italiane che svolgevano attività industriale esercitavano il controllo solo nel 7% dei casi. Seguivano con percentuali residuali le holding (5%), le banche e altre società finanziarie (4%) e i soggetti non residenti (2%).

Il fenomeno si attenuava con il crescere della dimensione d’impresa: si passava infatti dal 96% per la classe di addetti 11-20 ad una incidenza del 22% del controllo esercitato da persone fisiche nella classe con oltre 500 addetti. In quest’ultima categoria di imprese, il controllo diretto veniva esercitato nel 37% dei casi da holding. Seguivano con il 20% le imprese industriali, con il 13% le banche e con l’8% i soggetti non residenti.

Differenze si notavano anche a livello settoriale. Ad esempio, il ruolo delle persone fisiche nell’esercitare il controllo diretto sulle imprese era più forte nel settori tradizionali (85%) e più ridotto nell’alta tecnologia (63%).

Dall’indagine emergeva il carattere fortemente familiare del capitalismo italiano. Mediamente in quasi l’80% dei casi sussistevano vincoli di parentela tra le persone fisiche che condividevano il controllo diretto dell’impresa. I legami familiari risultavano più forti per le imprese operanti nei settori tradizionali (83%) e di scala (79%), meno forti per le imprese dei settori specializzati (74%) e di quelli dell’alta tecnologia (72%).

La proprietà delle imprese, oltre che saldamente in mano alle persone fisiche, appariva anche fortemente concentrata in pochi soggetti. In media, infatti, il primo soggetto controllante possedeva da solo circa il 50% del capitale, e cumulando le quote dei primi tre soggetti si superava l’80%.

Si ha ragione di ritenere che i dati presentati sulla natura fortemente familiare del capitalismo italiano non abbiano subito nel corso di questi ultimi anni mutamenti significativi, trattandosi di fenomeni strutturali che possono cambiare solo nel lungo periodo. Essi sono certamente ancora validi e su questo quadro possiamo svolgere alcuni brevi  riflessioni.

L’istituzione familiare è in crisi e la sua unità e integrità appaiono certamente meno radicate di un tempo. Prevale il relativismo etico che ha intaccato la sacralità e l’indissulubilità del matrimonio. Dobbiamo allora chiederci come questa crisi possa riflettersi sulla stabilità del controllo delle nostre imprese che, come mostrano i dati, si fonda sulla famiglia e sui suoi componenti.  E’ la natura familiare del nostro capitalismo che evidentemente non può non risentire della crisi che ha colpito la famiglia e la concezione cristiana di questa fondamentale istituzione il cui spirito è presente nella nostra carta costituzionale.

In definitiva, la crisi della famiglia conduce inevitabilmente alla crisi del nostro capitalismo familiare, come mostrano casi recenti che sono successi e di cui hanno molto parlato gli organi di informazione.

Due le riflessioni fondamentali: la prima è che i cristiani devono testimoniare con maggiore convinzione nella società il modello di famiglia in cui credono. La seconda è cominciare a pensare seriamente a modelli di  proprietà e controllo delle imprese più in linea con le attuali grandi sfide della competizione globale.