Mi complimento con Mons.Arcivescovo, che ha già toccato nel suo intervento tutti i punti essenziali dell’argomento.
Vediamo di dare una visione d’insieme dell’argomento “welfare”. Innanzitutto, perché ultimamente si inizia a parlare tanto di welfare d’impresa? Tutto comincia nel dicembre 2015 con la Legge di Stabilità 2016 (poi continuando con quelle 2017 e 2018), che prevedono tutte la detassazione di questi servizi; ossia si è andati a modificare il TUIR (DPR917/86) che, in parole povere, è lo strumento che serve in pratica al calcolo delle imposte sui redditi. Come sappiamo, in bilancio posso scaricare tutti i costi di beni e servizi, strumentali al perseguimento degli obiettivi aziendali. Ad esempio, se produco cucine, la macchina che taglia il legno è strumentale alla produzione delle stesse cucine. Poteva però prima l’impresa creare, ad esempio, un asilo per i figli dei dipendenti? Certamente sì! Non poteva però scaricare fiscalmente i costi per quell’asilo. Prima, lo Stato diceva che non era strumentale all’attività dell’impresa e quindi si calcolavano le imposte sugli utili, non potendo prevedere tali costi. Con la Legge di Stabilità del 2016 lo Stato si è accorto che, se il dipendente sta bene, anche questo è strumentale al perseguimento degli obiettivi aziendali. Cioè, non si capiva perché venissero riconosciuti i costi per, ad esempio, la manutenzione di un tornio, ma non quelli per la “manutenzione psico-fisica” di una risorsa umana, che potrebbe anche produrre molto meglio, dopo tale “manutenzione”. Pertanto, a partire dalla promulgazione di quella Legge di Stabilità, si inizia a parlare di detassazione in questi termini: scarichi il costo anche di questo servizio dalla tua base imponibile. Lo stesso è avvenuto fiscalmente per il reddito del dipendente; ossia, lo stesso asilo andava a finire in busta paga, perché era considerato beneficio residuale, cioè, in termini anglosassoni, fringe benefit. Al dipendente veniva calcolata la base imponibile fiscale, computando un valore X maggiore, che riguardava quei fringe benefit. Quindi, il cosiddetto netto in busta, era minore. La modifica, quando si parla di defiscalizzazione è questa: detassazione sul fronte impresa e sul fronte del dipendente. Ecco perché abbiamo questa “onda” del welfare d’impresa.
Chiariamoci subito comunque su cos’è il welfare in senso generale, sennò si tratta del solito “ritornello” che si ripete, senza sapere bene di cosa si parla. Innanzitutto, questo inglesismo (che a me non piace molto) è la composizione, come diceva Mons.Arcivescovo, delle parole well e fare; ossia, bene e tariffa/biglietto. Chi ha viaggiato, ha sentito parlare di airfare. Sostanzialmente, significa “viaggiare bene”, muoversi bene, fare qualcosa bene. È importante approfondire, perché noi lo abbiamo tradotto con benessere. Questa parola, scritta senza trattino fra bene ed essere, ci dà un senso di staticità. Il benessere, in italiano, viene associato alla vecchia concezione di salute; cioè l’assenza di malattie. È un po’ una fotografia, non un video, qualcosa che mostri movimento, quindi di dinamico. Tant’è che benessere in inglese si traduce realmente “wellness” e non “welfare”. Lo hanno tradotto meglio i paesi di lingua spagnola. Loro non dicono “bien estár”, bensì “bien vivir”. Il ben vivere; perché il vivere bene non significa non essere malato, per esempio. Ciò, viene richiamato dalla DSC in parecchi punti, ma anche dalla Costituzione all’art.2, che recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Scomodiamo anche gli antichi: quali sono le dimensioni, nelle quali si sviluppa l’essere umano. Essi dicevano il bios, che è l’aspetto corporale, la psiche (che è in parte collegata al concetto odierno, ad esempio di psicologia, ma che rappresentava il concetto di anima; quindi qualcosa di trascendente), il nóos, l’intelletto (che non è esattamente l’intelligenza), oltre alla parte socializzante, che viene espressa con il significato di amore, concetto che mi piace molto riprendere. Non c’è però solo una parola greca per definire l’amore; ne usavano quattro: storge, che rappresenta l’amore parentale-filiale, philia, che è l’amicizia, eros, che è l’amore carnale, istintivo, passionale, e agape, che è la donazione; successivamente tradotta in latino caritas e, poi, in carità. In italiano si è forse perso in parte il significato originale. Qualcuno oggigiorno poi parla di agape come sinonimo di convivio… Al di là di questo, vediamo come si tratta di quattro modi di relazionarsi con gli altri. Tali modi li ritroviamo nei nostri concetti. Gli antichi, poi la Chiesa che ha ripreso nel corso dei secoli alcuni di questi termini. Ciò potrebbe essere attaccabile. Allora prendiamo una definizione di benessere più moderna. L’Osservatorio Permanente presso la Commissione Europea, nel quale siede anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2006 ha fatto una proposta, in realtà non ancora accettata, che dovrebbe portare alla definizione del benessere dell’uomo come qualcosa che si esplica, soddisfacendo cinque dimensioni: quella fisica, quella psichica, quella emotiva, quella sociale e (novità del 2006) quella spirituale. Dopo qualche secolo, torniamo quindi a dire la stessa cosa.
Quindi questa definizione moderna dell’uomo ci porta a chiarire cosa intendiamo con la parola welfare. Diventa perciò importante che teniamo presenti quelle cinque dimensioni, quando andiamo ad affrontare temi ovvero quando andiamo a scegliere strumenti di welfare. Non è solo scegliere semplicemente un’assicurazione integrativa. Andiamo a vedere su quali di quelle dimensioni vado ad incidere, quando scelgo degli strumenti di welfare. Altrimenti rischio di arricchire materialmente qualcuno, senza rendermi conto che ha forse dei disagi di ordine diverso.
Quindi il welfare ha varie declinazioni: quello primario, lo stato sociale, che si occupa sostanzialmente dei livelli più bassi. Per cui, il sistema sanitario, quello socio-assistenziale, l’ordine pubblico, la difesa dei confini, l’istruzione e tutta una serie di questioni, che servono al buon vivere. L’Italia è una delle pochissime nazioni, che hanno un concetto di welfare universalistico, cioè rivolto a tutti, però inizia ad avere dei limiti per diversi motivi. Il welfare così come è, nasce nel ’46 con la Costituzione ed era assolutamente innovativo. Faccio un piccolo richiamo: il welfare nasce in realtà con la Costituzione della Repubblica di Weimar, nel 1919. Quindi ha circa un secolo; solo un secolo. C’è un articoletto in fondo a questa Costituzione che recita che le famiglie con più di cinque figli hanno bisogno di un aiuto. Arrivato poi il nazionalsocialismo, questo articolo, come tanti altri di quella costituzione, sono stati abrogati. Tutto ciò comunque per dire che, il modello di welfare statale, si basa sul concetto del raccogli-e-distribuisci: sussidiarietà fiscale “raccogli”, servizi statali “distribuisci”. Però sta soffrendo per svariati motivi: uno, spende male; spende più di ciò che raccoglie; ha stretto sempre di più i lacci della raccolta ma, arrivati ad un certo punto, la troppa pressione fiscale crea l’effetto contrario. Inoltre, ragiona sempre in termini di spesa, solo in parte in termini di investimento sociale, che è un’altra cosa. Due: con la crisi (com’è stato già detto) si sono ridotti drasticamente i fondi dello stato per questi sistemi di welfare primario. Tre: com’è anche stato detto, c’è un generale impoverimento delle famiglie con il conseguente aumento dei fabbisogni. Ultimo aspetto paradossale, il welfare è fatto per vivere meglio; se vivi meglio, vivi più a lungo; se vivi più a lungo, mi costi di più. Diventa, per certi aspetti, un circolo vizioso…
Quindi, lo Stato, con le leggi di stabilità ha detassato, riconoscendo l’importanza del benessere dei lavoratori, ma implicitamente ha pure detto che non ce la fa più a sostenerlo col welfare primario. La sanità costa moltissimo, la macchina pubblica costa moltissimo e non ce la fa più. Esprime quindi il concetto che, non riuscendo più a coprire tutti i campi del welfare, delega ad altri. Da sempre esiste il Terzo Settore, che svolge un importantissimo in Italia; e qui c’è tutta l’esperienza del mondo cattolico, dei suoi movimenti e delle sue organizzazioni. Sono però tutte cose poco strutturali. Lo Stato quindi sta spingendo per creare un welfare in un’ottica sussidiaria, coinvolgendo i terzi. Ecco perché nasce il welfare aziendale. Cosa caratterizza in primis l’aziendale dal non aziendale: che il secondo si rivolge a tutti i cittadini, mentre il primo solo ai lavoratori. Per cui, solo ad una fascia particolare. All’interno del welfare aziendale ci sono vari aspetti: quello mutualistico, quello contrattuale, ecc. Quello che li contraddistingue però è lo status di lavoratore del beneficiario e anche della sua famiglia, in alcuni casi. Nell’articolo 100 del TUIR, si parla di famiglia come nucleo convivente.
Quindi, perché un’impresa dovrebbe promuovere servizi di welfare? Per diversi motivi, non solo per la detassazione. Anche perché, posso detassare finché voglio, ma si tratta sempre di costi e, se l’azienda non fa utili, il welfare non parte. Perché l’azienda dovrebbe essere interessata? Perché se il lavoratore è sereno e soddisfatto, lavora di più e meglio. Sembrerebbe per certi versi sfruttamento ma, se per esempio, una dipendente di un’azienda ha la scuola materna a 20km dall’ufficio, alla scadenza dell’orario di lavoro (o anche qualche minuto prima) sentirà il bisogno di uscire e andare a riprendere il figlio. Se invece l’asilo è interno all’azienda, la stessa dipendente starà più tranquilla e si sentirà di stare in ufficio di più. Parlando come UCID dobbiamo farci promotori del welfare aziendale, ma questi aspetti sono un po’ subdoli e assomigliano a uno sfruttamento del lavoratore. Col welfare aziendale migliora l’impegno e la dedizione al lavoro. Anche il company branding (l’immagine aziendale) ne trae beneficio; così come la comunicazione interna ed esterna. Anche il livello di fidelizzazione del lavoratore aumenta di sicuro. Anche questo ha degli aspetti un po’ subdoli: se lavori con me, non solo hai lo stipendio, ma tutta una serie di vantaggi, legati al welfare. Se te ne vai, perdi tutti questi vantaggi. Anche questo può rappresentare una forzatura nei rapporti azienda-dipendenti. Diventa, per certi, aspetti una sorta di …reclusione psicologica.
Quali sono i servizi di welfare più diffusi in Italia in questo momento? Il primo è rappresentato dalla conciliazione genitorialità-lavoro, sia per le madri, che per i padri. Il secondo è l’assistenza domiciliare ai propri cari. Il terzo è rappresentato da tutta la parte sanitaria: visite specialistiche, farmaci, ecc., con l’estensione della copertura sanitaria a tutto il nucleo familiare. Ancora: le agevolazioni sulle tasse scolastiche, i libri di testo, i trasporti, le mense, le colonie estive, ecc. Poi i fondi integrativi previdenziali. Flessibilità. Telelavoro. Questi sono, ad oggi, i servizi di welfare più diffusi e più richiesti in Italia. Se noi rileggessimo questi temi, alla luce delle cinque dimensioni dell’uomo, di cui sopra, ci accorgeremmo che sono tutti afferenti a quella fisica. Tutto concentrato sulla materialità. In realtà, se si ha a cuore il benessere della persona, perché la considero al centro di tutto, senza scomodare certi argomenti della DSC, debbo far sì che la persona stia bene in tutte e cinque le sue dimensioni. Non posso colmarne solo una o due. Altrimenti rischio di sprecare solo soldi, senza avere un ritorno.
Altra questione importante, collegata comunque a quanto sopra, il welfare va progettato bene prima di applicarne le politiche. Si parte perciò da un’analisi dei fabbisogni, che non può limitarsi a un semplice questionario da compilare. Il lavoratore risponderà secondo quello che gli verrà in mente in quel momento, anche se non rappresenta veramente le sue esigenze. Oppure se io faccio un budget o mi affido a un provider esterno, vedo che normalmente parte di quel budget rimane inutilizzato, così come i servizi, che potrebbe offrire tale provider. È vero che personalizzo il welfare, ma non ottengo il risultato che voglio. Ciò avviene, perché non tengo conto di tante criticità: 1) il bisogno cambia secondo il ciclo di vita della persona; se ho più trentenni, è meglio metter su una palestra, se ho più quarantenni, è forse meglio un asilo nido, se ho dei cinquantenni, è meglio che offro degli screening medici. Non posso quindi fare una fotografia ad oggi e pensare che ciò rimarrà costante negli anni. 2) I bisogni sono condizionati dalle mode: ad esempio, a Milano va di moda l’asilo in lingua inglese. Questo però non aumenta il benessere psicofisico del lavoratore. Una cosa che non fa quasi nessuno è guardare l’evoluzione dell’azienda. Io debbo seguire la strategia aziendale; ad esempio: è prevista una fusione, uno scorporo, lo spostamento di uno stabilimento? I miei dipendenti sono pendolari o no? Il lavoratore di Milano ha necessità diverse da un lavoratore delle Marche. Varia anche, non solo geograficamente, ma anche nel corso degli anni, la configurazione familiare, il setup familiare. Nelle grandi città, i nonni non vivono quasi più a casa con i figli e con i nipoti. Quando la famiglia era allargata nel senso generazionale, molti servizi erano svolti all’interno della stessa famiglia. 3) Alcuni bisogni afferiscono alla sfera spirituale; sono di carattere etico-religioso. Oggigiorno abbiamo tanti lavoratori di altre religioni (soprattutto musulmani), che vogliono pregare, quando i loro precetti lo impongono o quando si sentono di farlo. I cristiani non stanno facendo niente in questo senso, ma potrebbero fare qualcosa. 4) Alcuni bisogni sono di tipo psicologico. Centri ascolto, soprattutto all’interno dell’azienda grande. Ad esempio, il DLgs. 81/08 ha imposto di effettuare un’analisi di rischio da stress correlato, anche se spesso non ci sono reali interventi di psicologi all’interno delle aziende. Mentre invece la necessità molto spesso ci sarebbe. Questo sarebbe un altro importante strumento di welfare, che costerebbe molto meno di tutti gli altri e che invece avrebbe un impatto maggiore.
Inoltre, non tutti i fabbisogni costano. Ad esempio, una grossa società di Milano aveva la necessità di ridurre il monte ore settimanale di 30-40 minuti a tutti i dipendenti. I dipendenti della società sorella hanno stabilito di accorciare l’orario di 7 minuti al giorno. Nell’altra azienda invece è stato deciso di cumulare tutti i 7 minuti giornalieri e di effettuare una chiusura dell’azienda durante tutte le feste natalizie, come i figli a scuola. Circa 2000 dipendenti che vanno in vacanza dal 22 dicembre al 7 di gennaio. Tutti sono felici. Questo è welfare aziendale. Si tratta di uno strumento che non è costato nulla, ma che ha dato un di più alle famiglie dei dipendenti, soprattutto quelli con i figli in età scolare.
Non ultimo va detto che il welfare andrebbe partecipato con il territorio, nel quale si trova l’azienda. Mi confronto con il comune, con gli enti locali; ma anche con le parrocchie, la diocesi, ecc. Analizzo bene cosa mi offre il territorio stesso. Per esempio, è inutile che io crei un asilo aziendale, quando il comune ha in programma di costruirne di nuovi, vicino all’azienda, o quando quelli comunali hanno pochi bambini. Così rischio di mettermi in concorrenza col comune. Rischio di mettere in atto un’azione di responsabilità d’impresa, che è contraria alle azioni di responsabilità nei confronti del territorio. Bisogna quindi convergere e lavorare in un’ottica realmente sussidiaria col territorio.
Per completezza d’informazione, vanno anche analizzate le posizioni contrarie al welfare aziendale, ad alcune delle quali si è già fatto accenno. 1) Immaginiamo una cittadina o una zona, nella quale una buona parte della popolazione è dipendente di una sola impresa. L’imprenditore è illuminato e fornisce servizi di welfare ai suoi dipendenti e alle loro famiglie con, ad esempio, asili, palestre, librerie e altri servizi. Tutto è molto bello, ma rischio di creare un fenomeno di autoghettizzazione; cioè, creo una diseguaglianza, che è esattamente il contrario di ciò che voglio ottenere, attuando politiche di welfare e violo anche la Costituzione, che parla di eguaglianza di diritti, a prescindere dalle condizioni della persona. Inoltre, creo una company town, che nasce con servizi, voluti da un imprenditore illuminato. Con gli stipendi dei miei dipendenti, creo opportunità di business e posti di lavoro nell’indotto. Se facciamo l’esempio dell’asilo aziendale, diciamo che creo dei posti di lavoro per le maestre, che ci debbono lavorare. Aumento quindi la popolazione che è dipendente dall’attività dell’azienda. Creo un bacino economico-sociale che è condizionato dall’andamento della mia azienda. Va analizzata la sostenibilità nel tempo di una tale politica d’impresa. 2) Il welfare per l’azienda è comunque un costo. Quando questa deve tagliare per una riduzione degli utili (o a causa di perdite), i primi tagli li va a fare proprio a quelle spese per il welfare. Com’è ovvio, ad esempio, se debbo scegliere fra licenziare 120 persone o chiudere l’asilo aziendale, tutti saranno d’accordo (anche i lavoratori) a optare per la seconda scelta. 3) Rischio di avere l’impresa totalizzante. Sono dipendente di una grossa impresa e, tutto il giorno, vedo il mio capo in ufficio. Esco e lo trovo al circolo tennis aziendale oppure al bar o al ristorante. Vado in vacanza e lo trovo nel centro convenzionato con l’azienda. L’azienda rischia di diventare un “recinto chiuso” dal quale il dipendente non esce perché non gli conviene; però, psicologicamente, ciò gli può creare qualche problema.
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