Il mio intervento si ricollega ovviamente molto ai precedenti. Io però parlerei di una vena di ottimismo, ma anche una di pessimismo, per quanto concerne lo sviluppo delle politiche di welfare. Per quanto riguarda la vena pessimistica (o realistica, diremmo), c’è chi guarda con gli occhi dell’operatore. In quella ottimistica comunque c’è altrettanto sentimento.
Vorrei partire dalle ultime frasi del relatore che mi ha preceduto, il Segretario Generale della CISL Marche, per dirmi d’accordo sul punto che è impossibile sviluppare un welfare aziendale senza coniugare l’efficienza con la solidarietà. Se vogliamo, fra sviluppo e solidarietà, lì dove sviluppo ed efficienza non li assumo come sinonimi, ma come due possibili termini dialettici. Questo perché siamo abituati a ragionare di efficienza o di sviluppo in termini meramente quantitativi. Lo faccio io, che sono padre di famiglia con un reddito fisso. Lo fate voi imprenditori e professionisti, che vi dovete conquistare fette di mercato; cioè, lo sviluppo (ovvero l’efficienza) in termini meramente quantitativi. Questo è vero, ma è soltanto un aspetto, una parte del problema. Poi ne viene un altro, che è altrettanto necessario, e che è l’elemento qualitativo dell’efficienza e dello sviluppo. Altrimenti, i discorsi fatti fino ad ora in questo convegno non reggono; ovvero, reggono, ma con tutta una serie di cascami di ordine pessimistico, che ci fanno retrocedere. Questo perché, tutti gli aspetti problematici (che sono anche stati segnalati negli interventi precedenti) sono quelli che hanno condotto gli attori della scena politica, nel corso degli anni, a indirizzarsi sempre più verso un welfare state estremamente pesante, ingombrante. Ora, affinché si possa comprendere l’esigenza di un welfare aziendale, bisogna cambiare il paradigma, che non presenta solo una voce, ma una serie di voci. Quello d’impresa e soltanto uno e funziona, producendo effetti positivi, nella misura in cui le voci di questo paradigma sono rispettate, sono considerate. Vengono quindi sviluppate. Altrimenti ricadiamo in quello che era un tempo il “paternalismo aziendale”.
Il welfare state nasce nella storia per venire incontro a due esigenze: da un lato quella che ritengo un’esigenza, appunto, positiva; ossia quella di uscire dalla trappola del paternalismo aziendale, per il quale il lavoratore, che si trovava di fronte un imprenditore illuminato, buono, di buoni sentimenti, era un soggetto fortunato e godeva di determinati diritti e anche di determinati favori. Dall’altro lato, invece, il lavoratore, che si trovava di fronte al “despota” di turno, come imprenditore, come capo, come padrone, viveva una vita disgraziata. Il welfare state nasce quindi per uscire dalla discrezionalità della bontà di qualche imprenditore, per entrare invece in una dimensione di diretti universali, riconosciuti a tutti i lavoratori, proprio per il loro status di lavoratori e non per essere capitati bene o capitati male. Questo è un aspetto del welfare.
L’altro aspetto, diremo politico, nasce per convogliare e consolidare proprio il consenso politico. In quel caso, il welfare state nasce quando vengono fondati i movimenti di massa e, quindi, si passa da una politica delle consorterie, elitaria, a una che invece coinvolge le masse. Il fenomeno del socialismo. Quello dei vari fascismi a livello europeo, che poi sfociano nei fenomeni totalitari. Tutto ciò porta le masse ad avere un ruolo all’interno della scena politica. Ciò, con la leva del consenso, riesce a ingabbiare questo fenomeno che sembra sfuggire alle élite e convoglia verso il consenso politico. Quindi il welfare state ha due aspetti, uno positivo (la fuoriuscita dal paternalismo aziendale) e uno meno positivo, che è quello di usarlo come leva per il consenso.
Perché si possa immaginare un welfare aziendale, ma anche comunitario (un’espressione molto usata è quella della welfare society), per poter entrare in una dimensione diversa di welfare, che non sia meramente “state”. L’espressione welfare state indica che, il soggetto principale, fondamentale, fino a diventare monopolista del benessere sociale, è lo stato. L’ente che accorpa in sé tutte le unità politiche e ne sintetizza le funzioni. Affinché si possa immaginare un welfare comunitario (community, society) o generativo, nel quale lo stato deve essere uno ed entrare in competizione con gli altri soggetti di welfare, dobbiamo passare da un paradigma di tipo “paternalista statale” (che aveva già superato il paternalismo aziendale, ma che lo aveva assorbito all’interno della sfera statale) a uno sociale. Si era in una dimensione comunque quantitativa, non essendo passati da un paternalismo aziendale (dove il padre virtuale è l’imprenditore illuminato) a un welfare sociale, bensì a un paternalismo statale, dove il padre virtuale è, appunto, lo stato: dalla culla alla tomba, non a caso. Perché si possa immaginare un welfare aziendale, che non ceda ai vizi (potremmo dire, alle problematiche, che il Dott.Di Martino ha enunciato al termine del suo intervento), è necessario il cambio di paradigma. Cioè, il paradigma non è più quello paternalistico (l’idea che esista un padre reale o virtuale: imprenditore o stato), ma è invece un’idea, per la quale il progetto di welfare diventa sussidiario; cioè il paradigma della sussidiarietà, contro quello del paternalismo di stato.
Il paradigma della sussidiarietà, però, prevede un ruolo attivo, principale e vitale della società civile. Uscire quindi dal paternalismo di stato, per passare a un ruolo fondamentale della società civile. Bisogna comunque stare attenti, perché oggi ci si riempie spesso la bocca con l’espressione “società civile”, soprattutto in campagna elettorale. Negli ultimi vent’anni abbiamo conosciuto la crisi dei partiti, che sono divenuti talmente impresentabili da cambiare la propria immagine e trasformarsi in movimenti, di società civile, di (ad esempio) “popolo delle partite IVA”, come se tutto questo potesse far dimenticare quello che sono stati (e per molti versi lo sono tutt’ora) i partiti politici. Facciamo invece attenzione che, quando parliamo di società civile, ci riferiamo a un concetto, a un sistema concettuale, il quale è estremamente chiaro, che però non è molto presente nel nostro paese. Non perché l’Italia non abbia esempi virtuosi di società civile, ma perché quella dimensione virtuosa della stessa società civile ha subito nel corso degli anni dei colpi estremamente duri: dal sistema partitocratico (usando un’espressione sturziana, anche sindacatocratico), che ha finito per relegare la società civile a un ruolo residuale, che non significa non importante, ma vuol dire funzionale, strumentale a qualcosa. Cioè, la società civile serve a qualcun altro. Uso spesso questo paragone: quando immaginiamo la s.c. nel contesto italiano degli ultimi 40-50 anni, vediamo un sistema malato da partitocrazia; ossia, dove il sistema politico si riduce alla dimensione di partiti; questa è una grande critica che Sturzo rivolgeva dal ’46 in poi allo stesso sistema politico. Diceva lo stesso Sturzo che erano le tre “male bestie” della democrazia: 1) lo statalismo, 2) la partitocrazia, 3) lo spreco di denaro pubblico. Tali “male bestie” sarebbero una la conseguenza dell’altra. Tutti questi colpi, dati dalle “male bestie”, appunto, hanno ridotto la società civile italiana a una specie di prateria, dove i potentati di turno (partiti, lobbies economiche e/o finanziarie, ecc.) hanno potuto attingere. La società civile diventa il luogo, nel quale quei soggetti si nutrono, costruiscono un nuovo volto più presentabile e la stessa società civile si convince che il proprio ruolo non sia quello di argine critico al potere politico, ma quello di passaggio. Cioè, di cinghia di trasmissione tra coloro, che non contano nulla ed hanno bisogno dello stato, e lo stato stesso. Ne abbiamo purtroppo anche esempi: sembra quasi che il fine di chi opera nella società civile sia quello di diventare, prima o poi, politico. Vediamo ad esempio il fenomeno della politicizzazione, della “partiticizzazione”, dei leader sindacali. Sembra che un leader sindacale non possa concludere la sua carriera se non entra in politica. Come se invece non fosse proprio nella società civile il suo ruolo principale.
Il cambio di paradigma sta, allora, proprio in questo: nel non considerare la politica, intesa come ruolo centrale dello stato, il monopolio sul bene comune. Noi dobbiamo rompere il meccanismo, che collega bene comune e stato e indicare invece il bene comune come un sistema di condizioni, garantito da tutte le sfere della società. All’interno dello stesso bene comune c’è anche la politica, quindi c’è anche lo stato; ma non può avere il monopolio su di esso.
Questo è il passaggio di paradigma. Significa quindi che, ciascuno di noi, considera la propria persona, la propria famiglia, la propria scuola, la propria azienda, la propria …bocciofila, la propria parrocchia, fonte/sorgente di bene comune. Perciò, la quota parte di bene comune che scaturisce, dalla propria famiglia, dalla propria bocciofila, ecc. non è meno rilevante di quella data dallo stato attraverso la funzione delle regole. Perché questa è la funzione principale dello stato; cioè quella di controllo del rispetto delle regole. Il passaggio di paradigma è la consapevolezza da parte dei cittadini, dei padri e delle madri di famiglia, degli imprenditori, degli insegnanti, di chiunque che, la propria funzione all’interno della società civile e di contribuire al bene comune e che non deve aspettarsi che altri svolgano questo compito. Il cambio di paradigma prevede anche un altro elemento fondamentale: uscire dalla presunzione che il welfare (come ha anche detto il Dott.Di Martino) equivalga al benessere; il benessere materiale. Se il welfare fosse riducibile al benessere, allora basterebbe una funzione di utilità collettiva, formalizzabile mediante un’equazione, e si ottiene il risultato che si voleva. Ci sono fior fiore di economisti, che sanno usare gli strumenti matematici, che creano algoritmi. Facebook ci costruisce la nostra vita…Vuoi che non si possa costruire l’algoritmo del benessere. Non si può costruire se il benessere non è semplicemente il reddito; se il benessere va un po’ più in là del reddito.
Ora, la Dottrina Sociale della Chiesa, che poi è l’orizzonte valoriale che sta dietro a queste cose, di cui sto parlando, usa l’espressione welfare state a partire dall’enciclica “Centesimus annus”, ma per criticarlo. In realtà, la nozione più prossima a quello, che stiamo cercando di analizzare, è quella di vita buona, non quella di benessere, inteso in senso materiale. La vita buona, che consente la fuoriuscita dalla trappola puramente economicista e puramente quantitativa, quindi materialista. Però è evidente che ognuno ha la propria vita buona. In una società chiusa, tribale, la vita buona è quella del capo tribù, che la impone a tutti i membri della stessa sua tribù. In una società aperta come la nostra non c’è un capotribù, ma non c’è nemmeno la consapevolezza che la maggioranza possa decidere cosa sia bene e cosa sia male. La maggioranza semmai sanziona una determinata opzione di vita, alla quale possiamo aderire o meno. Però non dice ciò che è bene o male. Questo quindi significa che bisogna uscire dall’idea, meramente utilitaristica, che la vita buona, il benessere, il welfare sia riducibile ad un calcolo, dove il benessere totale è la somma del benessere di ogni individuo. Invece, purtroppo, l’idea di welfare state poggia su questo ultimo concetto e si basa su funzioni di utilità collettiva. L’ottimo paretiano, per chi ha studiato economia, che è, in questo caso, una funzione di utilità collettiva attraverso la quale stabiliamo quanto benessere individuale ciascuno deve godere. Questo è ancora una volta un welfare di tipo paternalistico. Mentre invece, per poter passare a un welfare di tipo sussidiario, dobbiamo ritornare a una dimensione personalistica, che in ambito filosofico significa qualcosa, ma anche in ambito economico; cioè passare dall’idea che le scelte politiche debbano essere basate su funzioni di utilità collettiva all’idea, invece, che le scelte politiche debbano fare i conti con la dignità di ciascuna persona. L’unico modo, affinché ciò non sia mera retorica, ma sia implementabile all’interno delle scelte pubbliche, è quello di usare criteri di sussidiarietà orizzontale e di governance. Sono questi gli strumenti politici, di cui ci possiamo dotare.
L’ultimo aspetto, sul quale mi vorrei concentrare, è quello che, affinché tutto si regga e sia possibile fare una scelta di questo tipo, è necessario avere un’idea della sussidiarietà conforme a quanto detto. La parola sussidiarietà è oggigiorno molto usata e forse anche abusata dagli organismi sovranazionali, dalle istituzioni. La sussidiarietà presenta infatti due aspetti: uno positivo e uno negativo; non come giudizio di valore. Positivo nel senso di positum e negativo in quello di astensione. Da un lato, la sussidiarietà comporta delle politiche attive, significa intervenire laddove le parti più prossime al bisogno da soddisfare, non sono in grado di soddisfare i propri bisogni. Qui deve intervenire un organismo di ordine superiore. Questo significa, ad esempio, che, in una dimensione verticale della sussidiarietà, laddove il comune non arriva, dovrebbe intervenire quella, che un tempo era la provincia. Laddove quest’ultima non arriva, ci deve pensare la regione e, se non può quest’ultima, ecco lo stato, l’Unione Europea e così via. Una scala ascendente. Questo è un aspetto della sussidiarietà ed è importante. La scala, in questo caso, è solo ascendente, quindi, e lo stato si deve astenere dal compiere ciò che, a livello più basso, può essere svolto dagli enti pubblici territoriali più prossimi al bisogno. Mentre noi, spesso, intendiamo questa scala al contrario, cioè come discendente. Invece, l’organismo superiore deve intervenire, laddove quelli di ordine inferiore non sono in grado di soddisfare i bisogni.
La sussidiarietà verticale disciplina l’intervento pubblico all’interno delle istituzioni pubbliche. Quella orizzontale delinea il rapporto fra sfera pubblica e sfera privata. Fra società politica e società civile. Anche qui la sussidiarietà orizzontale ci dice che lo stato non dovrebbe intervenire, laddove la società civile è in grado di intervenire da sé. Quindi noi chiediamo allo stato di intervenire solo ed esclusivamente laddove la società civile non è in grado di intervenire essa stessa. Non per intervenire, però, ma per rigenerare la società civile stessa. Offrire gli strumenti, affinché essa possa camminare con le proprie gambe. Questo è il passaggio fondamentale, riguardante la sussidiarietà, espresso da Pio XI nell’enciclica “Quadragesimo anno” del 1931. Vorrei farvi riflettere brevemente su quella data perché, nel 1931, tutta l’Europa era ormai sotto il giogo del totalitarismo, che non è un sistema meramente statalistico. Secondo la definizione di colui che l’ha coniata, ossia Giovanni Gentile, che poi la offrirà a Benito Mussolini, che la farà riportare nella voce “fascismo” dell’Enciclopedia Treccani, e diventata poi la definizione di tutti i totalitarismi dell’epoca, esso è “quel regime politico, nel quale tutto è dello stato, tutto è nello stato, tutto è per lo stato e nulla è al di fuori dello stato”. Siamo alla metà degli anni ’20, quando Gentile dà questa definizione. Nel ’31, anno di pubblicazione della “Quadragesimo anno”, quasi tutta l’Europa era dominata da regimi totalitari. Nell’Est Europa c’è l’URSS; poi c’è stato l’avvento del Fascismo. Il Nazismo si sta per insediare, ma si è già presentato sulla scena pubblica.
Ecco invece che, nel ’31, Pio XI individua questo principio, chiamato sussidiarietà, mettendolo alla base dell’ordinamento politico. Tutto questo è rivoluzionario, rispetto alla scena politica di quel tempo. Se osserviamo però quello che sono oggi i concetti di welfare state, welfare society, welfare community, welfare generativo, ci accorgiamo che comunque oggigiorno è ancora da implementare in buona parte.
Nell’enciclica Quadragesimo Anno, Pio XI dice: “Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofa sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare” L’esatto contrario del principio gentiliano del totalitarismo. Poi l’enciclica continua: “Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di, subsidium afferre, aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle.”
Questo perciò è il principio di sussidiarietà del ’31, che verrà poi espresso da tutti i pontefici successivi, in particolare da Giovanni Paolo II, che lo collegherà al tema del welfare state. Con lo stesso Giovanni Paolo II, nell’enciclica “Centesimus annus”, questo paradigma della sussidiarietà viene applicato direttamente alla dimensione welfare state e ci dice che, così come è illecito sostituirsi alla persona, per quanto riguarda i compiti che gli spettano (all’interno della famiglia, esistenziali, ecc.), è altrettanto illecito che accada a livello di welfare.
Affinché poi non si corra di nuovo il rischio di cadere nel paternalismo aziendale, è necessario che si passi dal paradigma della società civile, intesa come strumento del potere politico, a quello della società civile come argine al potere politico. Argine critico al potere politico. Anche qui perciò si deve passare da un’idea “monarchica” (potremmo dire) dell’ordine politico (ossia a un potere centrale, con tutto il pluralismo che ruota intorno ad esso, che viene cioè sintetizzato da esso; l’antico organicismo, che viene poi assunto dal corporativismo), ad un’idea non più “monarchica” o, per meglio dire, monistica della società, bensì a una idea poliarchica della società. Cioè dire, ad un’idea di società, fatta di sistemi e sottosistemi, ciascuno sovrano.
Se assumiamo che la sovranità (come per l’art.1 della Costituzione) appartiene al popolo, cioè al cittadino, allora ciascuno di noi nel proprio ambito, nella propria sfera d’influenza, nel proprio campo, esercita la funzione del “sovrano”. Il compito del sovrano è prendersi cura dei suoi sudditi. In una società, però, nella quale non esistono più sudditi (non vogliamo vivere in una società di sudditi!), dire che ciascuno è sovrano, significa che ciascuno si prende cura del proprio prossimo e lo fa attraverso le istituzioni. Anche le aziende sono istituzioni, ma non sono le uniche.
Quindi, il welfare aziendale ha senso e produce effetti positivi, nella misura in cui si inserisce in una dimensione poliarchica, dove perciò tutta la società civile si organizza in questi termini.
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