“Quale sarà la politica monetaria della Federal Reserve e della BCE nel 2025?” di Giovanni Scanagatta

QUALE SARA’ LA POLITICA MONETARIA DELLA FEDERAL RESERVE E DELLA BCE NEL 2025?

Giovanni Scanagatta*

Siamo agli inizi del 2025 ed è utile chiedersi quale potrebbe essere la politica monetaria della Federal reserve americana e della Banca Centrale Europea nel corso dell’anno. Naturalmente, le valutazioni vanno fatte alla luce del nuovo scenario che si è venuto a creare con l’elezione di Donald Trump a nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America.

Uno degli obiettivi fondamentali dichiarati da Trump in campagna elettorale è quello del riequilibrio della bilancia commerciale americana che presenta un enorme e crescente deficit, soprattutto nei confronti dell’Europa e della Cina. Per questo, ha minacciato l’introduzione di dazi all’importazione, anche se tale misura tende a spingere verso l’alto l’inflazione, in presenza di una domanda sostanzialmente rigida dei beni importati. Ciò chiamerebbe in causa politiche monetarie restrittive con il rialzo dei tassi di interesse di policy, con conseguenze negative per la crescita e l’occupazione. Ma esiste anche lo strumento del tasso di cambio del dollaro che Trump vuole abbastanza debole per favorire le esportazioni.

Come abbiamo visto, prima e subito dopo l’insediamento del nuovo Presidente americano, il dollaro si è notevolmente apprezzato rispetto all’euro, raggiungendo quasi la parità. Negli ultimi giorni, invece, la forza del dollaro si è notevolmente attenuata con un deprezzamento in poco tempo di quasi il 4%. Le quotazioni a termine ad un anno mostrano livelli ancora più alti della parità del cambio a termine sulla base del differenziale d’interesse tra gli Usa e l’Europa, indicando aspettative di ulteriore deprezzamento del dollaro.

Queste tendenze del dollaro si possono collegare ai notevoli acquisti di oro da parte delle principali banche centrali e, in particolare, della Cina e della Russia. Ma anche alla grande domanda di criptovalute, in primis il bitcoin. Tutto ciò può attenuare il conflitto americano con i BRICS che vogliono creare un sistema di pagamenti non più basato sull’egemonia mondiale del dollaro, ma sulle criptovalute, sull’oro e su monete paniere. Anche l’oro ha subito dei forti aumenti negli ultimi mesi, con un trend regolare e stabile di crescita e modeste oscillazioni attorno al trend, a differenza del bitcoin che mostra un’alta volatilità.

L’economia europea ristagna e la crescita trainata dalle esportazioni, pensiamo alla Germania, incontra sempre maggiori ostacoli, soprattutto alla luce della politica dei dazi di Trump. L’Europa deve pensare ad un grande programma di investimenti pubblici e privati per migliorare la sua competitività e la crescita, piuttosto che pensare solo all’introduzione di nuove regole che appesantiscono e ingessano l’economia. Non dimentichiamo che Trump ha creato un nuovo Ministero per sburocratizzare il sistema economico e sociale.

In questo quadro negativo per l’Europa, l’economia italiana è quella che va meglio, anche se non mancano i problemi come, ad esempio, la realizzazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Sono troppi gli impacci burocratici a livello statale e locale che frenano l’esecuzione veloce ed efficace del PNRR. Va inoltre ricordata che gran parte delle risorse del PNRR va rimborsata, trattandosi di debiti. La parte a fondo perduto è molto più bassa, in confronto alla Spagna che è la seconda beneficiaria dell’Unione europea in termini di risorse ricevute.

Se il dollaro si deprezza, sono danneggiate le esportazioni europee e quindi quelle italiane. C’è quindi da chiedersi come potrebbe reagire la BCE di fronte a questa situazione, anche se bisogna ricordare che l’obiettivo primario della BCE è quello di difendere il potere d’acquisto della moneta. Ma non può dimenticare l’obiettivo della crescita e dell’occupazione e quindi dovrebbe continuare ad allentare la politica monetaria con un continuo ribasso dei tassi di interesse. Si profila pertanto, come del resto sta già avvenendo, uno scenario di riduzione parallela dei tassi di interesse di policy da parte della Federal reserve americana e della Banca Centrale Europea.     

*Professore di Politica economica e monetaria all’Università di Roma “La Sapienza”  

 

Roma, 1 febbraio 2025

“La crisi dell’Unione Europea e il modello dell’Impero degli Asburgo” di Giovanni Scanagatta

LA CRISI DELL’UNIONE EUROPEA E IL MODELLO DELL’IMPERO DEGLI ASBURGO

1.Scopo del presente contributo è di presentare un’ipotesi suggestiva e certamente ardita di quanto l’Unione europea potrebbe imparare dal modello dell’impero degli Asburgo per uscire dalla crisi che l’attanaglia.

L’Impero Asburgico, che si estese dal 1278 al 1918, cioè 640 anni, rappresenta una delle realtà politiche più longeve e complesse della storia europea. Sotto il dominio della Casa d’Austria, l’impero seppe mantenere una straordinaria stabilità e prosperità per secoli, attraversando numerosi cambiamenti geopolitici e conflitti. La sua grande forza ed efficienza si manifestarono sia sul piano militare che su quello amministrativo, economico e culturale.

L’inizio dell’era asburgica come potenza imperialista risale al 1278, con la vittoria di Rodolfo I d’Austria nella battaglia di Dürnkrut, che gli permise di divenire imperatore del Sacro Romano Impero. Da questo momento, la Casa d’Austria riuscì a consolidare il proprio potere attraverso matrimoni strategici, alleanze politiche e la gestione abile delle risorse interne. La dinastia asburgica acquisì vasti territori che si estendevano ben oltre i confini dell’Austria, abbracciando aree come i Paesi Bassi, la Spagna, l’Ungheria, la Boemia e la Lombardia.

Uno degli aspetti che più ha caratterizzato la forza dell’Impero Asburgico fu il suo esercito, che si distinse per la sua disciplina, la capacità di adattarsi alle nuove tecniche di guerra e la strategica posizione geografica che permetteva all’impero di affrontare nemici su più fronti. Le guerre di successione, come quella di Maria Teresa d’Austria, o i conflitti contro l’Impero Ottomano e la Francia, mostrarono l’efficacia di un esercito ben equipaggiato e motivato.

Nel XVIII secolo, sotto il governo di Maria Teresa e del figlio Giuseppe II, l’impero si dotò di una riforma militare che garantì una maggiore efficienza nelle operazioni belliche, rafforzando la capacità di difesa e di proiezione del potere oltre i confini. L’esercito austriaco si distinse anche per la sua capacità di combattere contro nemici più grandi, come le forze napoleoniche. La sua resistenza durante le guerre napoleoniche, pur non riuscendo a mantenere intatti i territori imperiali, dimostrò una notevole resilienza.

Uno degli aspetti distintivi dell’Impero Asburgico fu il suo sistema amministrativo e la gestione di un’entità politica così eterogenea. L’impero comprendeva territori che oggi fanno parte di numerosi Stati dell’Europa Centrale e Orientale, e la sua efficienza risiedeva nel riuscire a governare popolazioni con lingue, religioni e tradizioni diverse.

Il sistema amministrativo asburgico si basava su una struttura centralizzata che, pur rispettando la diversità regionale, permetteva un controllo efficace da parte della corte imperiale di Vienna. Le riforme di Maria Teresa e Giuseppe II modernizzarono l’amministrazione, creando una burocrazia efficiente che favorì il progresso sociale ed economico. Tuttavia, l’elemento che garantì la continuità del potere asburgico fu la capacità di adattarsi alle circostanze politiche e di bilanciare i diversi interessi delle sue varie province.

Sul piano economico, l’Impero Asburgico sviluppò un sistema che stimolò sia l’agricoltura che l’industria. Le riforme agrarie di Maria Teresa permisero una maggiore produttività nelle terre, mentre il libero commercio all’interno dell’impero contribuì alla crescita di città come Vienna, Praga e Budapest. Inoltre, il controllo di importanti rotte commerciali tra Oriente e Occidente, grazie alla sua posizione strategica, permise all’impero di accumulare ricchezze e potere.

Il commercio di merci come il sale, il grano, il vino e i tessuti, unito a un sistema bancario che favoriva gli scambi commerciali, rinforzò l’economia asburgica. Le riforme fiscali di Giuseppe II migliorarono l’efficienza della raccolta delle imposte, ma furono anche accompagnate da una crescita delle spese per sostenere un apparato militare sempre più costoso.

L’impero Asburgico si caratterizzava per una solida moneta, come il tallero di Maria Teresa che, come nome, ricorda il dollaro. Si tratta di una condizione fondamentale per uno sviluppo economico sano e solido nel tempo.  Il tallero di Maria Teresa d’Austria è una moneta d’argento coniata a partire dal 1741, durante il regno dell’Imperatrice Maria Teresa, ed è stata ampiamente utilizzata in molte parti d’Europa e nei territori dell’Impero Asburgico. Il tallero pesa circa 28 grammi.

Il recto della moneta presenta il ritratto di Maria Teresa, (Maria Teresa, per grazia di Dio, Imperatrice), mentre il verso mostra l’arma dell’Imperatrice, con una corona e uno scudo araldico, accompagnato dalla data di coniazione e il valore tallero. La moneta divenne simbolo di stabilità economica ed è stata utilizzata come moneta di riferimento in diverse nazioni anche dopo la morte dell’Imperatrice.

Inizio modulo

L’Impero Asburgico fu anche un grande centro di produzione culturale. Vienna, la capitale, divenne uno dei principali centri culturali d’Europa, accogliendo artisti, musicisti, filosofi e letterati provenienti da tutta Europa. La musica, in particolare, ha visto un enorme sviluppo, con compositori come Wolfgang Amadeus Mozart, Ludwig van Beethoven e Franz Schubert che contribuirono a fare di Vienna la capitale della musica classica.

L’impero, sotto il governo degli Asburgo, promosse anche la scienza e la filosofia, con l’istituzione di università e accademie. La corte di Vienna fu un luogo di grande fervore intellettuale, in cui si svilupparono idee che influenzarono profondamente l’Europa. Le riforme educative e le iniziative per l’alfabetizzazione aumentarono notevolmente il livello culturale della popolazione.

Nonostante la sua grande forza e l’efficienza amministrativa, l’Impero Asburgico incontrò nel XIX secolo numerose difficoltà. Il nazionalismo crescente, le tensioni tra i vari gruppi etnici e le sfide poste dalle guerre napoleoniche indebolirono l’impero. La crisi del 1848, le guerre contro il Regno di Sardegna e la crescente pressione di potenze emergenti come la Prussia portarono alla fine del dominio degli Asburgo su gran parte dei territori europei.

La Prima Guerra Mondiale segnò la fine definitiva dell’Impero Asburgico nel 1918, con la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico. Tuttavia, nonostante la sua fine, l’eredità culturale, amministrativa e militare degli Asburgo continua a influenzare l’Europa anche nel XX e XXI secolo.

  1. L’Impero Asburgico, con la sua grande forza militare, la sua efficienza economica e amministrativa e la sua ricca tradizione culturale, rappresenta uno dei modelli più significativi di governo in Europa. La sua capacità di adattarsi ai cambiamenti storici e di gestire una realtà complessa e multiculturale lo ha reso uno degli imperi più longevi della storia. Pur affrontando numerose sfide nel corso dei secoli, la sua eredità è ancora viva in molti aspetti della vita moderna europea.

Gli Asburgo hanno saputo tenere in piedi e amministrare in modo sapiente e illuminato un impero che andava da oriente ad occidente, compresi i Balcani. Su questo l’Europa ha sostanzialmente fallito perché non ha saputo tenere insieme, come affermava Giovanni Paolo II, i due polmoni per respirare e salire in alto, cioè l’oriente e l’occidente dell’Europa, compresa la Russia.

Si doveva andare avanti sulla strada tracciata dall’unificazione delle due Germanie, Est e Ovest, ma non si è stati capaci per mancanza di visione storica e per l’incapacità di superare gli interessi nazionali che era indispensabile per costruire un’Unione europea forte e coesa. Si pensava, erroneamente, che fosse sufficiente la creazione della moneta unica perché tutto il resto sarebbe seguito secondo un meccanismo di tipo automatico, in forza di un pensiero di tipo illuministico. Si tratta della teoria funzionalista tanto cara ai francesi.

Un altro elemento che ha consentito per tanti anni la vita e il buon funzionamento dell’impero asburgico, come fattore di coesione, sono le radici cristiane, che sono invece state svilite con la nascita dell’Unione europea, rifiutando di inserire nella premessa della carta costituzionale questa fondamentale verità, su cui si era battuto con grande forza, ma inutilmente, Giovanni Paolo II.

  1. Il frantumarsi dell’impero asburgico ha avuto conseguenze negative per tutta l’Europa dopo la prima guerra mondiale. A questo contribuì fortemente il nefasto Trattato di Parigi del 1919 che mise in ginocchio la Germania con i pesantissimi pagamenti dei debiti di guerra.

E’ interessante ricordare che contro le ingiustizie del Trattato di Parigi del 1919, il grande economista inglese J.M. Keynes decise di dimettersi dalla Commissione economica, in rappresentanza del governo inglese. Nell’autunno del 1919 pubblicò, come atto di accusa contro il Trattato, la famosa monografia “Le conseguenze economiche della pace”. In tale monografia denunciò, tra l’altro, le gravi conseguenze economiche per tutti i paesi europei degli ostacoli posti alle relazioni commerciali tra la Germania e la Russia. Questo grave errore lo aveva ben capito, molti anni dopo, Angela Merkel che favorì con decisione i rapporti economici e commerciali tra la Russia e la Germania unificata. Poi però la storia ha fatto un salto indietro e l’Europa è ritornata a colpire con le sanzioni economiche la Russia, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.

  1. Ma torniamo al modello dell’impero degli Asburgo e alle conseguenze economiche della sua caduta dopo la prima guerra mondiale. Ne troviamo un’efficace sintesi nell’Introduzione al Bollettino economico della Banca Commerciale Italiana del 1931. Così si legge: “Il frantumarsi della Monarchia d’Asburgo spezzò una vasta unità industriale agrario-finanziaria, la quale serviva come ponte di passaggio tra l’Oriente europeo e l’Occidente, fra il mare del Nord e i paesi balcanici e il Sud. Tutto il commercio europeo si era stabilizzato sulla esistenza del sistema dei trasporti austro-ungarici, con le sue tariffe differenziali, sui metodi creditizi delle banche viennesi specializzate nel finanziamento caratteristico del Balcani; e nell’interno del vasto impero si era creata una perfetta divisione economica della produzione e del lavoro. Così una vasta zona territoriale con circa sessanta milioni di abitanti, posta al centro del sistema economico europeo, venne dopo la guerra a rappresentare uno dei punti di maggiore debolezza del nostro Continente e dal 1922 in poi visse con puntelli e con sistemi di artificio, che la crisi doveva far cadere per primi. Dall’Austria, con la crisi Credit-Anstalt, la situazione odierna doveva avere il proprio punto di partenza. E se gli accordi presi dopo il Rapporto di Parigi hanno dato un respiro a quei paesi, mettendo una parte di essi sotto la tutela amichevole della Lega delle Nazioni, nessuna misura organica però venne presa per ridare ossigeno  a vita ad un gruppo di Stati che, insistiamo su questo punto, rappresentano per la loro situazione geografica uno dei nodi vitali per la vita e i rapporti economici dell’Europa intiera”.

Per la verità, su questa analisi, il giudizio di Keynes nella monografia del 1919 è molto più severa del Bollettino economico della Banca Commerciale Italiana. Secondo Keynes, il Trattato di Parigi rappresenta il trionfo del potere dispotico dei vincitori della prima guerra mondiale, a partire dalla Francia di Clemenceau. E afferma che Clemenceau per portare casa gli interessi della Francia ha ingoiato la costituzione della Società delle Nazioni voluta dal Presidente americano Roosvelt. Ma la Società delle Nazioni avrebbe contato ben poco.

Al termine dell’Introduzione del Bollettino economico del 1931 della Banca Commerciale Italiana troviamo la domanda cruciale che riguarda l’attuale crisi dell’Unione europea. “Quanto durerà la crisi? La domanda va rivolta agli uomini politici, non agli economisti e agli uomini d’affari”. Una cosa è certa: dagli attuali uomini politici dell’Unione europea non possiamo attenderci risposte credibili. Preghiamo Dio che ci mandi uomini politici europei in grado di darci una risposta credibile a questa domanda per un vero futuro all’Unione europea, all’altezza dei padri fondatori dell’Europa che erano dei profondi cristiani.

Giovanni Scanagatta
Professore di Politica economica e monetaria all’Università di Roma “La Sapienza”

“La Presidenza Trump e il futuro delle criptovalute” di Giovanni Scanagatta

Dopo l’elezione di Donald Trump a nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, il dollaro si è notevolmente rafforzato rispetto all’euro di oltre il 5% e l’oro è sceso dalle punte che aveva toccato prima delle elezioni, con una perdita analoga.

Si conferma pertanto la relazione negativa tra il tasso di cambio del dollaro e il prezzo dell’oro, tenuto anche conto che nel frattempo la Federal reserve americana ha abbassato i tassi d’interesse di un quarto di punto percentuale. L’oro non dà cedole e quando diminuiscono i tassi di interesse tende a ridursi il suo prezzo. Ma la diminuzione del prezzo dell’oro tende anche ad indicare che c’è un’aspettativa, con la nuova presidenza, di un rientro dei rischi geopolotici e geoconomici, a a partire dalle guerre in corso. Il prezzo dell’oro, bene rifugio per eccellenza, aumenta infatti in caso di guerre, epidemie, crisi finanziarie internazionali, creazione di una nuova moneta e altri eventi straordinari (variabili entelechiane).

Mentre l’oro arretra, le criptovalute stanno mostrando delle performance eccezionali, a partire dalla più conosciuta: il Bitcoin.

La criptovaluta è una moneta particolare per la regolazione degli scambi. La moneta tradizionale si caratterizza per costi nulli di commerciabilità, certezza del valore nominale, incertezza del valore reale, certezza del reddito con rendimento nullo. La criptovaluta ha costi di transazione bassissimi, non ha la certezza del valore nominale perché il suo valore cambia, può presentare certezza del valore reale perché difende dall’inflazione come bene rifugio, analogamente all’oro, ha un rendimento in relazione al valore che cambia. Pertanto, la criptovaluta più che una moneta vera e propria è un asset il cui valore nominale muta generando guadagni e perdite. Essa pertanto può essere paragonata all’oro: l’oro dell’era digitale in cui siamo entrati.  Le criptovalute, o almeno la maggior parte di esse, sono pensate per introdurre nel sistema nuove unità di moneta, ma con dei limiti quantitativi imposti per evitare inflazione e per aumentare il loro valore. Nel caso del Bitcoin, ad esempio, l’attività di mining si interromperà quando saranno raggiunte 21 milioni di unità.

Il livello attuale dei prezzi dei Bitcoin è vicino ai 90 mila dollari per un Bitcoin, con un aumento in un anno superiore al 100%. L’esame grafico indica per il Bitcoin un livello di resistenza vicino ai 100 mila dollari e uno di supporto di circa 78 mila dollari. Ma anche le altre criptovalute stanno mostrando delle performance eccezionali, come Ethereum e Ripple, con prezzi attuali di 3084 dollari e di 0,801 dollari rispettivamente. Il livello di resistenza di Ethereum viene indicato superiore del 12% rispetto al prezzo attuale e quello di Ripple del 7%.

 Il valore in tempo reale di una valuta digitale come il valore Ethereum e il valore Ripple viene deciso dall’equilibrio fra i compratori e i venditori sugli scambi. Quando più persone comprano una moneta piuttosto che venderla, il suo prezzo cresce, e quando più persone vendono piuttosto che comprare, il suo prezzo scende. I costi di transazione sono bassissimi rispetto alle altre forme di pagamento.

Questi andamenti riflettono senz’altro la posizione più favorevole di Trump nei confronti delle cripovalute rispetto a Biden. Dal giorno delle elezioni americane, Bitcoin ha realizzato un guadagno del 35%. Alcuni sostengono che l’eccezionale performance delle criptovalute è dovuta all’idea che Trump rimuova molti ostacoli regolamentari e persino dia seguito alla promessa di costituire una riserva federale in Bitcoin. Anche se quest’ultima aspettativa appaia esagerata, non vi è dubbio che la nuova presidenza sarà molto aperta nei confronti della diffusione delle monete private decentrate come sono le cripovalute.

Il monopolio della creazione della moneta e della politica monetaria in capo ad un’unica istituzione del tutto indipendente dal governo non è desiderabile nella visione del nuovo presidente rispetto alle politiche monetarie discrezionali dell’attuale Federal reserve. Lo vedremo certamente in occasione delle mosse della Federal reserve nel prossimo anno con riferimento alla velocità di riduzione dei tassi di interesse. Per intaccare l’enorme deficit commerciale con l’estero degli Stati Uniti e per ridurre il peso per interessi del grande debito pubblico americano, Trump sarà favorevole a significative riduzioni dei tassi interesse, mentre il presidente della Federal reserve potrebbe frenare la manovra in relazione all’andamento tasso di inflazione.

La visione favorevole della nuova presidenza americana nei confronti delle criptovalute e quindi della privatizzazione della moneta riflette certamente il pensiero liberale per eliminare la discrezionalità della politica monetaria, in linea con il pensiero di Hayek, Friedman e Brunner. Il premio Nobel per l’economia, Milton Friedman, riteneva che l’offerta di moneta non dovesse dipendere dalle scelte discrezionali di una banca centrale ma dovesse crescere ad un tasso costante. Analoga posizione discende dal monetarismo fiscale di Karl Bruner, con un tasso di crescita della moneta predeterminato all’interno di una fascia di variazione.

Sul piano storico, sembrano realizzarsi i corsi e i ricorsi storici di vichiana memoria. Nel 1800 esisteva la pluralità delle banche di emissione, secondo un principio di tipo concorrenziale. Nel 1900 si passa al monopolio della creazione della moneta e della politica monetaria in capo ad un’unica istituzione: la banca centrale. Con le criptovalute si ritorna ad una visione concorrenziale, decentrata e privatistica della moneta. Attualmente le criptovalute sono più di 2 mila.

Giovanni Scanagatta
Professore di politica economica e monetaria all’Università di Roma “La Sapienza”

Roma, 19 novembre 2024

“Solo con la crescita si può ridurre il debito pubblico” di Giovanni Scanagatta e Stefano Sylos Labini

L’intervento del Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta al meeting di agosto Comunione e Liberazione ha suscitato un grande interesse. Il Governatore ha sottolineato che le spese per l’istruzione sono inferiori alle spese per interessi sul debito pubblico e che quindi l’obiettivo della politica economica deve essere la riduzione dell’enorme debito che il nostro Paese ha accumulato negli ultimi decenni. Nel 2024 la spesa per interessi raggiungerà il 4% del Pil, circa 100 miliardi di euro su un debito pubblico che presto supererà la quota di 3.000 miliardi di euro.

Ineccepibile, ma come raggiungere questo obiettivo? Ci sono due strade di fronte a noi. La prima è quella di aumentare le tasse e ridurre la spesa pubblica che però rischia di far crollare il Pil e le entrate fiscali e quindi di far aumentare il rapporto debito/Pil. Olivier Blanchard, già capo economista del Fondo Monetario Internazionale, aveva riconosciuto che il moltiplicatore fiscale e cioè il rapporto tra tagli al deficit e diminuzione della crescita, è molto più alto di quanto si pensasse sconfessando le politiche di austerità per ridurre il debito pubblico. Ma il nuovo Patto di Stabilità imporrà alla maggior parte degli Stati dell’eurozona un pesante percorso di aggiustamento dei conti pubblici deprimendo la crescita dell’economia. La recente affermazione dell’estrema destra tedesca nasce proprio dalla crisi economica che sta colpendo la Germania.

La seconda strada è quella di puntare sulla crescita proprio per ridurre il rapporto debito/Pil visto che la diminuzione del debito in termini assoluti con tassi d’interesse mediamente elevati è un obiettivo molto difficile da conseguire. Oggi in Italia i dati sulla crescita non sono affatto incoraggianti: dal 2024 il Pil è in sostanziale stagnazione, la produzione industriale sta diminuendo dal secondo trimestre del 2022 e l’apporto del PNRR non ha ancora prodotto una spinta consistente sulla nostra economia. Le dichiarazioni del Ministro dell’Economia al riguardo hanno suscitato notevoli preoccupazioni: Giorgetti ha evocato i piani quinquennali di sviluppo dell’Unione Sovietica per indicare che i vincoli burocratici associati alla spesa di questi fondi ne stanno depotenziando l’impatto. A ciò si aggiunge che non siamo mai stati capaci di spendere i soldi europei in modo rapido ed efficiente, che si tratta pur sempre di un debito e che la parte più consistente dei fondi finora spesi – circa 30 miliardi di euro su 50 – sono legati ai crediti d’imposta per l’industria e per l’edilizia e cioè alle decisioni d’investimento delle imprese.

In questo quadro bisognerebbe ripensare ai crediti fiscali trasferibili che sono uno strumento molto potente per finanziare l’economia ma che purtroppo nel triennio 2021/23 sono stati gestiti in modo assai discutibile dai governi che si sono succeduti. Ci sono due linee d’azione che potrebbero essere perseguite a costo zero. La prima è quella di rendere trasferibili i crediti d’imposta previsti per il piano Industria 5.0. In questo modo le imprese potrebbero disporre di liquidità immediata sfruttando lo sconto in fattura e monetizzando i crediti mentre per lo Stato l’impatto sul bilancio pubblico non cambierebbe: le minori entrate si avranno quando gli sconti fiscali saranno esercitati per pagare meno tasse. La seconda è quella di favorire la circolazione e la monetizzazione dei crediti fiscali fin qui emessi nel settore edilizio, che sono bloccati nei cassetti fiscali dei committenti e delle imprese e che stanno provocando crisi di liquidità, blocco dei cantieri, fallimenti e cassa integrazione.

Il compito del governo dovrebbe essere quello di ripristinare la fiducia su questo strumento garantendo un mercato di scambio fluido ed efficiente con degli acquirenti sicuri come la Cassa Depositi e Prestiti e le imprese partecipate dallo Stato (ENI, ENEL, ecc.) che pagano decine di miliardi di euro di tasse e contributi ogni anno.

La futura riduzione dei tassi d’interesse della Banca Centrale Europea può dare una boccata d’ossigeno alla nostra economia sebbene le decisioni della BCE siano lente di fronte alla gravità della situazione; mentre il progetto di Europa federale invocato da Mario Draghi con investimenti pubblici centralizzati e debito comune incontra l’ostilità della Germania e degli altri paesi nordici e richiederebbe una governance sul modello americano con un Presidente degli Stati Uniti d’Europa, un ministro del Tesoro e così via.

Per concludere, se non rimettiamo in moto la crescita dell’economia, il peso del debito sul Pil sarà destinato ad aumentare aggravando una situazione già molto complicata.

Giovanni Scanagatta, Professore di Politica economica e monetaria all’Università “La Sapienza” di Roma

Stefano Sylos Labini, Gruppo Moneta Fiscale

 

Roma, 23 settembre 2024

 

 

“Il dilemma sull’immigrazione” di Giovanni Scanagatta e Stefano Sylos Labini

Le forze di destra sono in crescita in diversi paesi occidentali come Francia, Italia e Stati Uniti, dove aumentano, alla luce degli ultimi eventi, le possibilità di vittoria di Donald Trump.

Tradizionalmente le forze di destra sono contro l’immigrazione che non è ben vista sia dai lavoratori autoctoni i quali rischiano di perdere il posto di lavoro e di avere retribuzioni più basse, sia dalle classi sociali svantaggiate poiché gli immigrati spesso risiedono nelle aree di periferia più degradate.

Ma la posizione delle forze della destra non è così chiara come sembra perché, a fronte dell’invecchiamento della popolazione, dei problemi della sanità e dei salari interni, l’immigrazione può costituire un’opportunità.

Qualche mese fa, il Governatore della Banca d’Italia, nella lectio magistralis per la laurea honoris causa all’Università Roma Tre, ha sottolineato che l’Europa sta pericolosamente invecchiando e nei prossimi anni “si rischia un forte calo dell’offerta di lavoro e quindi della crescita potenziale dell’economia europea”. Per questo “occorre uno sforzo significativo per consentire un ingresso regolare e controllato di immigrati e la loro integrazione nel mercato del lavoro”. Una questione, sostiene il Governatore, che “non può essere affrontata dagli stati membri singolarmente” e che richiede una “politica di immigrazione comune” per evitare squilibri di “fronte alla pressione asimmetrica” degli arrivi massicci da paesi del Sud del mondo”.

In Italia gli immigrati rappresentano stabilmente un decimo degli occupati e contribuiscono alla produzione di circa il 9% del PIL, con punte ancora maggiori in alcuni comparti come l’agricoltura e l’edilizia: muratori, badanti, braccianti, sono solo alcuni mestieri dove la manodopera immigrata è in crescita continua. Si tratta di settori dove lo sfruttamento dei lavoratori immigrati ha raggiunto livelli intollerabili: il caso recente del lavoratore indiano abbandonato con un braccio mozzato nell’agro pontino ha fatto rabbrividire l’intera Italia.

Dunque la destra si trova nel dilemma del respingimento (i campi di accoglienza in Albania sono un esempio) e dello sfruttamento dell’immigrazione a basso costo in settori a limitata qualificazione professionale. Non a caso, il Governo Meloni ha previsto per il triennio 2023-2025 l’ingresso di oltre 450 mila lavoratori non comunitari, riaprendo di fatto un canale che era rimasto inutilizzato per circa un decennio.

Non va dimenticato che quella che viene chiamata “sinistra” non ha un progetto alternativo, a parte l’invocazione di un’accoglienza che nei fatti produce emarginazione poiché spesso gli immigrati sono abbandonati a loro stessi.

Bisognerebbe, invece, pensare ad un “piano del lavoro” perché chi arriva in Italia deve lavorare e deve avere una retribuzione dignitosa. Ma servono investimenti pubblici e privati dando priorità all’occupazione degli italiani. Il “piano Mattei” per l’Africa è un’idea molto interessante che va nella giusta direzione, ma occorre riempirlo di contenuti e di capacità realizzative. Non dimentichiamo che l’Impero Romano ha mostrato la sua espansione strategica verso l’Africa. L’antica Roma, nella sua espansione, ha sempre pensato all’importanza dell’integrazione di popoli diversi, offrendo la possibilità a tutti di diventare cittadini dell’Impero.

L’Europa manca totalmente di una politica comune e solidale per l’immigrazione e l’integrazione. Non si può andare in questo delicatisssimo campo per ordine sparso, con ogni Paese che pensa a se stesso con proprie politiche, indovinate o non indovinate che siano. Pensiamo al caso della Germania. Le pressioni migratorie non sono simmetriche e occorrono cooperazione e coesione a livello di Unione europea che attualmente non esistono. Altrimenti il rischio è quello di creare disgregazione sociale, criminalità, degrado umano e ristagno economico. L’Europa ha le risorse per evitare uno scenario così negativo.

Giovanni Scanagatta, Professore di Politica economica e monetaria alla “Sapienza” di Roma

Stefano Sylos Labini, Gruppo Moneta Fiscale

 

Roma, 16 luglio 2024

 

 

“Divergenze tra le politiche monetarie della BCE e della Federal Reserve americana” di Giovanni Scanagatta

Per la prima volta dal 2019, la Banca Centrale Europea (BCE) riduce i tassi di interesse. Come si legge nel comunicato stampa, “i tassi di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali, sulle operazioni di rifinanziamento marginale e sui depositi presso la banca centrale saranno ridotti rispettivamente al 4,25%, al 4,50% e al 3,75%, con effetto dal 12 giugno 2024″. Si tratta di un piccolo taglio di un quarto di punto.

Una riduzione attesa dall’Italia per gli effetti riduttivi sul costo del nostro elevato debito pubblico, sulle famiglie per i mutui a tasso variabile e sulle imprese che hanno un elevato quoziente di indebitamento come nel caso delle imprese di piccole e medie dimensioni. Nel 2024 il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo dovrebbe superare il 140%, e una riduzione di un quarto di punto del costo del debito determinerebbe un risparmio intorno ai 7 miliardi di euro.

Un altro aspetto va evidenziato con riferimento alle banche. La riduzione dei tassi, dovrebbe portare come conseguenza alla contrazione del margine di interesse delle banche e quindi dei profitti o extraprofitti. L’effetto lo abbiamo visto con le riduzione delle quotazione di borsa del settore bancario. Si tratta di aspetti controversi che avevano portato all’ipotesi di tassazione degli extraprofitti bancari da parte del Governo, poi rientrata. In ogni caso, il comportamento delle banche riguardante il margine di interesse va analizzato separatamente nella fase ascendente e in quella discendente del costo del denaro.

La cautela nella riduzione dei tassi di policy viene giustificata dalla Presidente della BCE con il fatto che certamente l’inflazione nell’Unione Europea cala, ma rimane ad un livello che non è ancora vicino all’obiettivo del 2%. Ma c’è un’altra variabile che la BCE guarda, anche se non costituisce direttamente obiettivo della Banca Centrale, riguardando il tasso di cambio. Si tratta dei differenziali di interesse tra il dollaro e l’euro, già a favore della moneta americana prima dell’ultima decisione di riduzione da parte del Consiglio Direttivo. Poiché la Federal Reserve americana non ha variato i tassi di politica monetaria, tale differenziale si amplia ulteriormente e incide in modo negativo sul rapporto di cambio tra euro e dollaro. Infatti, il tasso di cambio della moneta europea si è deprezzato in pochi giorni scendendo da 1,09 a 1,07 dollari per euro, con una perdita di circa il 2%. Può aumentare pertanto l’inflazione importata e questo preoccupa la Presidente Lagarde. Ma andrebbe anche considerato l’effetto di un tasso di cambio dell’euro più debole rispetto al dollaro, per gli effetti positivi sulla competitività delle esportazioni europee. Questo è certamente utile per sostenere la bassa crescita dei Paesi dell’Unione, a partire dalla Germania.

Qualche considerazione infine sulla decisione della Federal Reserve americana di lasciare invariati, nella decisione del 12 giugno, i tassi di interesse di policy. Si tratta delle spese federali che tengono sostenuta la domanda, la crescita dei salari orari e il buon andamento del mercato del lavoro. L’inflazione corre ad un tasso superiore al 3% e ciò giustificherebbe la politica prudente della Federal Reserve nell’abbassare i tassi di interesse.

Giovanni Scanagatta

Professore di Politica economica e monetaria all’Università “Sapienza” di Roma

 

Roma, 12 giugno 2024