“Il dilemma sull’immigrazione” a cura di Giovanni Scanagatta e Stefano Sylos Labini

Le forze di destra sono in crescita in diversi paesi occidentali come Francia, Italia e Stati Uniti, dove aumentano, alla luce degli ultimi eventi, le possibilità di vittoria di Donald Trump.

Tradizionalmente le forze di destra sono contro l’immigrazione che non è ben vista sia dai lavoratori autoctoni i quali rischiano di perdere il posto di lavoro e di avere retribuzioni più basse, sia dalle classi sociali svantaggiate poiché gli immigrati spesso risiedono nelle aree di periferia più degradate.

Ma la posizione delle forze della destra non è così chiara come sembra perché, a fronte dell’invecchiamento della popolazione, dei problemi della sanità e dei salari interni, l’immigrazione può costituire un’opportunità.

Qualche mese fa, il Governatore della Banca d’Italia, nella lectio magistralis per la laurea honoris causa all’Università Roma Tre, ha sottolineato che l’Europa sta pericolosamente invecchiando e nei prossimi anni “si rischia un forte calo dell’offerta di lavoro e quindi della crescita potenziale dell’economia europea”. Per questo “occorre uno sforzo significativo per consentire un ingresso regolare e controllato di immigrati e la loro integrazione nel mercato del lavoro”. Una questione, sostiene il Governatore, che “non può essere affrontata dagli stati membri singolarmente” e che richiede una “politica di immigrazione comune” per evitare squilibri di “fronte alla pressione asimmetrica” degli arrivi massicci da paesi del Sud del mondo”.

In Italia gli immigrati rappresentano stabilmente un decimo degli occupati e contribuiscono alla produzione di circa il 9% del PIL, con punte ancora maggiori in alcuni comparti come l’agricoltura e l’edilizia: muratori, badanti, braccianti, sono solo alcuni mestieri dove la manodopera immigrata è in crescita continua. Si tratta di settori dove lo sfruttamento dei lavoratori immigrati ha raggiunto livelli intollerabili: il caso recente del lavoratore indiano abbandonato con un braccio mozzato nell’agro pontino ha fatto rabbrividire l’intera Italia.

Dunque la destra si trova nel dilemma del respingimento (i campi di accoglienza in Albania sono un esempio) e dello sfruttamento dell’immigrazione a basso costo in settori a limitata qualificazione professionale. Non a caso, il Governo Meloni ha previsto per il triennio 2023-2025 l’ingresso di oltre 450 mila lavoratori non comunitari, riaprendo di fatto un canale che era rimasto inutilizzato per circa un decennio.

Non va dimenticato che quella che viene chiamata “sinistra” non ha un progetto alternativo, a parte l’invocazione di un’accoglienza che nei fatti produce emarginazione poiché spesso gli immigrati sono abbandonati a loro stessi.

Bisognerebbe, invece, pensare ad un “piano del lavoro” perché chi arriva in Italia deve lavorare e deve avere una retribuzione dignitosa. Ma servono investimenti pubblici e privati dando priorità all’occupazione degli italiani. Il “piano Mattei” per l’Africa è un’idea molto interessante che va nella giusta direzione, ma occorre riempirlo di contenuti e di capacità realizzative. Non dimentichiamo che l’Impero Romano ha mostrato la sua espansione strategica verso l’Africa. L’antica Roma, nella sua espansione, ha sempre pensato all’importanza dell’integrazione di popoli diversi, offrendo la possibilità a tutti di diventare cittadini dell’Impero.

L’Europa manca totalmente di una politica comune e solidale per l’immigrazione e l’integrazione. Non si può andare in questo delicatisssimo campo per ordine sparso, con ogni Paese che pensa a se stesso con proprie politiche, indovinate o non indovinate che siano. Pensiamo al caso della Germania. Le pressioni migratorie non sono simmetriche e occorrono cooperazione e coesione a livello di Unione europea che attualmente non esistono. Altrimenti il rischio è quello di creare disgregazione sociale, criminalità, degrado umano e ristagno economico. L’Europa ha le risorse per evitare uno scenario così negativo.

Giovanni Scanagatta, Professore di Politica economica e monetaria alla “Sapienza” di Roma

Stefano Sylos Labini, Gruppo Moneta Fiscale

 

Roma, 16 luglio 2024

 

 

“Divergenze tra le politiche monetarie della BCE e della Federal Reserve americana” a cura di Giovanni Scanagatta

Per la prima volta dal 2019, la Banca Centrale Europea (BCE) riduce i tassi di interesse. Come si legge nel comunicato stampa, “i tassi di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali, sulle operazioni di rifinanziamento marginale e sui depositi presso la banca centrale saranno ridotti rispettivamente al 4,25%, al 4,50% e al 3,75%, con effetto dal 12 giugno 2024″. Si tratta di un piccolo taglio di un quarto di punto.

Una riduzione attesa dall’Italia per gli effetti riduttivi sul costo del nostro elevato debito pubblico, sulle famiglie per i mutui a tasso variabile e sulle imprese che hanno un elevato quoziente di indebitamento come nel caso delle imprese di piccole e medie dimensioni. Nel 2024 il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo dovrebbe superare il 140%, e una riduzione di un quarto di punto del costo del debito determinerebbe un risparmio intorno ai 7 miliardi di euro.

Un altro aspetto va evidenziato con riferimento alle banche. La riduzione dei tassi, dovrebbe portare come conseguenza alla contrazione del margine di interesse delle banche e quindi dei profitti o extraprofitti. L’effetto lo abbiamo visto con le riduzione delle quotazione di borsa del settore bancario. Si tratta di aspetti controversi che avevano portato all’ipotesi di tassazione degli extraprofitti bancari da parte del Governo, poi rientrata. In ogni caso, il comportamento delle banche riguardante il margine di interesse va analizzato separatamente nella fase ascendente e in quella discendente del costo del denaro.

La cautela nella riduzione dei tassi di policy viene giustificata dalla Presidente della BCE con il fatto che certamente l’inflazione nell’Unione Europea cala, ma rimane ad un livello che non è ancora vicino all’obiettivo del 2%. Ma c’è un’altra variabile che la BCE guarda, anche se non costituisce direttamente obiettivo della Banca Centrale, riguardando il tasso di cambio. Si tratta dei differenziali di interesse tra il dollaro e l’euro, già a favore della moneta americana prima dell’ultima decisione di riduzione da parte del Consiglio Direttivo. Poiché la Federal Reserve americana non ha variato i tassi di politica monetaria, tale differenziale si amplia ulteriormente e incide in modo negativo sul rapporto di cambio tra euro e dollaro. Infatti, il tasso di cambio della moneta europea si è deprezzato in pochi giorni scendendo da 1,09 a 1,07 dollari per euro, con una perdita di circa il 2%. Può aumentare pertanto l’inflazione importata e questo preoccupa la Presidente Lagarde. Ma andrebbe anche considerato l’effetto di un tasso di cambio dell’euro più debole rispetto al dollaro, per gli effetti positivi sulla competitività delle esportazioni europee. Questo è certamente utile per sostenere la bassa crescita dei Paesi dell’Unione, a partire dalla Germania.

Qualche considerazione infine sulla decisione della Federal Reserve americana di lasciare invariati, nella decisione del 12 giugno, i tassi di interesse di policy. Si tratta delle spese federali che tengono sostenuta la domanda, la crescita dei salari orari e il buon andamento del mercato del lavoro. L’inflazione corre ad un tasso superiore al 3% e ciò giustificherebbe la politica prudente della Federal Reserve nell’abbassare i tassi di interesse.

Giovanni Scanagatta

Professore di Politica economica e monetaria all’Università “Sapienza” di Roma

 

Roma, 12 giugno 2024

“Internazionalizzazione della imprese, redditività, rischi” a cura di Giovanni Scanagatta

Di solito, quando si parla dell’internazionalizzazione delle imprese, si fa riferimento al fatturato esportato o, a livello generale, all’incidenza delle esportazioni di un Paese sulle esportazioni mondiali.

Le esportazioni italiane su quelle mondiali pesano per il 2,6% nel 2022, in aumento rispetto all’anno precedente con un peso del 2,4%. La quota italiana è seconda solo a quella tedesca, 6,6%, e superiore a quella di Francia, 2,5%, Regno Unito, 2,1%, e Spagna, 1,7%.

Ma le forme di internazionalizzazione vanno molto al di là delle esportazioni e comprendono gli accordi di collaborazione tecnica, produttiva, di ricerca e sviluppo con imprese estere, lo scambio di brevetti e licenze, i programmi di penetrazione commerciale, gli investimenti diretti esteri.

Le diverse forme di internazionalizzazione tendono a svilupparsi in mercati sempre più ampi e integrati. Naturalmente, con le sviluppo delle varie forme di internazionalizzazione delle imprese, tendono a modificarsi le strutture delle bilance dei pagamenti. Per esempio, invece di esportare verso un determinato Paese, possono crescere gli investimenti diretti con la produzione nello stesso Paese di beni per servire il mercato locale o mercati dell’area. Gli stessi beni prodotti possono originare importazioni dirette verso il nostro Paese. In questo modo tendono a diminuire le esportazioni e a crescere le importazioni, ma altre voci della bilancia dei pagamenti si modificano. Prima di tutto, la parte relativa ai movimenti di capitali attraverso gli investimenti diretti esteri e poi le partite correnti per i redditi di capitale. Anche la parte dei servizi delle partite correnti della bilancia dei pagamenti può cambiare perché alcune funzioni aziendali più elevate come il controllo, la finanza, le attività di ricerca e sviluppo e il marketing rimangono in casa, mentre le produzioni si svolgono all’estero. La parte dei servizi delle partite correnti della bilancia dei pagamenti può pertanto migliorare, compensando in tutto o in parte la diminuzione delle esportazioni. Nel lungo periodo non si può pertanto escludere l’equilibrio complessivo della bilancia dei pagamenti, ma con una struttura completamente diversa.

Alla luce della breve analisi svolta sopra, dobbiamo chiederci come si muovono il rendimento atteso e il rischio per le imprese che sono internazionalizzate solo con le esportazioni e quelle invece che lo sono con tutte le altre forme. L’evidenza empirica mostra che le imprese con forme di internazionalizzazione complesse beneficiano di una combinazione rendimento- rischio migliore, cioè di un rendimento atteso più alto e di un rischio più basso. Le imprese invece che sono internazionalizzate solo attraverso le esportazioni, hanno una combinazione rendimento-rischio peggiore: rendimento atteso basso e rischio alto. Il risultato può essere compreso solo pensando alla maggiore competitività raggiungibile attraverso la collaborazione con imprese estere nel campo delle attività di ricerca e sviluppo e nello scambio di brevetti e licenze.

La globalizzazione e l’accelerazione del progresso scientifico e tecnico hanno modificato profondamente gli scenari e la competizione a livello mondiale richiede sempre di più alle imprese di internazionalizzarsi e non solo di esportare, e di entrare in nuovi mercati e in nuove aree. Da questo punto di vista, diventa sempre meno fondamentale la quota delle esportazioni sul totale mondiale e più importante la quota di mercato mondiale controllata dalle imprese nei diversi settori, indipendentemente dai luoghi in cui si produce in relazione alle convenienze relative e ai mercati da servire. Nella misura in cui ciò avviene, non possiamo parlare di deindustrializzazione, ma di una diversa presenza delle nostre imprese, in relazione ai nuovi modi di competere in mercati globalizzati.

Rispetto a tali tendenze, è doveroso accennare alla questione delle crescenti difficoltà di gestire le catene del valore a livello mondiale in presenza di pandemie e soprattutto di guerre, come stiamo purtroppo sperimentando. In tali scenari, aumenta la propensione al reshoring, riportando a casa produzioni in precedenza delocalizzate.

Giovanni Scanagatta

Professore di Politica economica e monetaria all’Università “Sapienza” di Roma

 

Roma, 25 maggio 2024           

“L’alto prezzo dell’oro e le politiche monetarie delle banche centrali” a cura di Giovanni Scanagatta

Nell’ultimo anno si è assistito ad un aumento fortissimo del prezzo dell’oro, sia in dollari che in euro. L’aumento annuo del prezzo dell’oro nella moneta americana è stato del 20,3% e quello nella moneta europea del 23,7%. I corrispondenti cambi di parità rispetto all’oro, all’inizio e alla fine del periodo, sono stati di 1, 09 dollari per euro e di 1,06.

Questo forte aumento del prezzo dell’oro fa ricordare il saggio del 1811 del grande economista inglese D. Ricardo sull’alto prezzo dell’oro e sulla controversia bullionista e anti-bullionista, o della scuola bancaria. Ricardo sosteneva che l’eccessiva circolazione di moneta in Inghilterra aveva determinato il forte aumento dei prezzi e per questa via la svalutazione della sterlina. Gli esponenti della scuola bancaria ritenevano invece che la causa del deprezzamento della sterlina dipendeva dal deficit della bilancia dei pagamenti, a sua volta determinato dalle rimesse e dal cattivo raccolto dovuto alla siccità. La relazione veniva invertita ed era l’aumento dei prezzi che determinava l’espansione della circolazione monetaria e non viceversa, come previsto dalla teoria quantitativa della moneta.

La domanda che sorge oggi spontanea riguarda le cause di questo spettacolare aumento del prezzo dell’oro. Sono due le cause che qui si pongono in evidenza. La prima riguarda la relazione negativa tra il prezzo dell’oro in dollari e il tasso di interesse reale (tasso nominale al netto dell’inflazione) sulla moneta americana. La seconda si riferisce all’aumento del prezzo dell’oro a causa della domanda per fini di investimento e della domanda da parte delle banche centrali, soprattutto Cina e Paesi Arabi. Si tratta, nel secondo caso, di una domanda connessa ai crescenti rischi geopolitici e geoeconomici a livello mondiale dovuti alle guerre.

Si ricorda che l’offerta di oro si colloca ogni anno tra le 4 mila e le 5 mila tonnellate e la domanda risulta mediamente così ripartita: 50% oreficeria, 10% tecnologia, 20% investimento e 20% acquisti da parte delle banche centrali.

L’offerta di oro è nel breve termine sostanzialmente rigida al prezzo perché la capacità produttiva delle miniere è sostanzialmente data e l’offerta muta solo grazie alla variazione delle scorte. L’offerta può invece variare sensibilmente nel lungo periodo grazie agli investimenti e al progresso tecnico. Una crescita della domanda determina quindi nel breve periodo aumenti del prezzo dell’oro superiori a quelli che ci sarebbero se l’offerta fosse elastica al prezzo.

Ma appuntiamo ora l’attenzione sulle politiche monetarie delle Banche Centrali e, in particolare, sulle due più importanti a livello mondiale: la Banca Centrale Europea (BCE) e la Federal Reserve americana, FED. Nelle ultime riunioni, le due Banche Centrali hanno lasciato immutati i tassi di interesse di policy intorno al 5%, con un differenziale a favore del dollaro.

Si dice che nelle prossime riunioni le due Banche Centrali ridurranno i tassi di interesse, in relazione alle conferme della discesa dei tassi di inflazione. E’ certamente sperabile che cio avvenga, soprattutto per l’Italia che ha un alto rapporto tra debito pubblico e PIL, ma se guardiamo ai prezzi dell’oro e misuriamo l’inflazione con il prezioso metallo, le speranze di una riduzione dei tassi di interesse si fa più flebile. I tassi di interesse reali sia sul dollaro che soprattutto sull’euro, impiegando l’inflazione misurata dagli aumenti del prezzo dell’oro, sono largamente negativi e ciò, come detto, spinge verso l’alto la domanda di oro e il suo prezzo. Ci sono poi i venti di guerra che soffiano sempre più impetuosi e questo imprime ulteriore spinta alla domanda di oro.

In questo scenario, la situazione dell’Italia appare non facile e l’unica strada possibile da percorrere è quella di spingere sugli investimenti per la crescita del reddito, investendo meglio e più velocemente le grandi risorse del PNRR e valutando con più serenità gli effetti degli incentivi fiscali a favore del settore delle costruzioni, pur con le necessarie misure per evitare i comportamenti fraudolenti.

  
Giovanni Scanagatta
Professore di Politica economica e monetaria alla “Sapienza” di Roma
Tavola Rotonda “Un’età da inventare – La Legge 33/2023: punti qualificanti e prospettive future” – Venerdì 10 novembre 2023

Tavola Rotonda “Un’età da inventare – La Legge 33/2023: punti qualificanti e prospettive future” – Venerdì 10 novembre 2023

Grande partecipazione alla Tavola Rotonda dal titolo “Un’età da inventare. La Legge 33/2023 punti qualificanti e prospettive future” che si è tenuta venerdì scorso presso l’Aula Magna dell’Università LUMSA di Roma, organizzata da nostro Consigliere Daniele Di Giorgio insieme ai membri della Commissione a Sostegno dell’Impresa Sanitaria Cattolica. Si è affrontato il tema dell’invecchiamento e della fragilità degli anziani partendo dalle profonde riflessioni di S.E.R. Mons. Vincenzo Paglia.

Sono intervenuti: Domenico Arena, Responsabile Nazionale RSA dell’Associazione Religiosa Istituti Socio-sanitari (ARIS); Fabio De Santis, Responsabile Eventi istituzionali e progetti di sviluppo – Area Centrosud, Fondazione Don Gnocchi; Fabio Miraglia, Presidente Giomi Next. Ha moderato la Tavola Rotonda il nostro socio Tonino Cantelmi, Presidente dell’Associazione Medici Cattolici di Roma.

Hanno partecipato Roberta Angelilli, Vicepresidente, Assessore allo Sviluppo economico, Commercio, Artigianato, Industria, Internazionalizzazione della Regione Lazio e Luciano Ciocchetti, Deputato e Vicepresidente della Commissione Affari Sociali della Camera.

Hanno portato i saluti di benvenuto Riccardo Pedrizzi, Presidente Regionale UCID Lazio e il nostro Presidente Giorgio Gulienetti.

Grazie a tutti per la partecipazione!

Registrazione 

Convegno “UCID incontra gli Imprenditori Romani. Progettare insieme un approccio etico nell’Impresa” – Mercoledì 8 novembre 2023

Convegno “UCID incontra gli Imprenditori Romani. Progettare insieme un approccio etico nell’Impresa” – Mercoledì 8 novembre 2023

Mercoledì 8 novembre 2023 presso il Centro Congressi Aurelia si è tenuto il convegno “UCID incontra gli Imprenditori Romani. Progettare insieme un approccio etico nell’Impresa”.

L’evento, organizzato dalla Commissione Formazione Etica a supporto della Dottrina Sociale della Chiesa della Sezione UCID di Roma, ha stimolato un interessante dibattito sul tema dell’ “etica” nell’impresa grazie agli interventi di S.E.R. Mons. Vincenzo Baturi, Arcivescovo di Cagliari, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana; Luigi Maria Vignali, Direttore Generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie MAECI; Maurizio Longhi, Presidente BCC Roma e Francesco Tilli, Senior Advisor SIMEST.

L’incontro è stato moderato da Fabio Zavattaro, Giornalista Vaticanista.

Ringraziamo la nostra consigliera Cinzia Rossi che ha organizzato l’evento e presentato i lavori della Commissione composta dai soci Saverio D’Addato, Vito Gioia, Giorgio Paglia, Nicola Ferrigni, Diego De Blasi, Emanuele Bova.

Al termine, ampio spazio è stato riservato agli interventi e alle domande dei partecipanti.

Grazie a tutti per la partecipazione!