“Solo con la crescita si può ridurre il debito pubblico” di Giovanni Scanagatta e Stefano Sylos Labini

L’intervento del Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta al meeting di agosto Comunione e Liberazione ha suscitato un grande interesse. Il Governatore ha sottolineato che le spese per l’istruzione sono inferiori alle spese per interessi sul debito pubblico e che quindi l’obiettivo della politica economica deve essere la riduzione dell’enorme debito che il nostro Paese ha accumulato negli ultimi decenni. Nel 2024 la spesa per interessi raggiungerà il 4% del Pil, circa 100 miliardi di euro su un debito pubblico che presto supererà la quota di 3.000 miliardi di euro.

Ineccepibile, ma come raggiungere questo obiettivo? Ci sono due strade di fronte a noi. La prima è quella di aumentare le tasse e ridurre la spesa pubblica che però rischia di far crollare il Pil e le entrate fiscali e quindi di far aumentare il rapporto debito/Pil. Olivier Blanchard, già capo economista del Fondo Monetario Internazionale, aveva riconosciuto che il moltiplicatore fiscale e cioè il rapporto tra tagli al deficit e diminuzione della crescita, è molto più alto di quanto si pensasse sconfessando le politiche di austerità per ridurre il debito pubblico. Ma il nuovo Patto di Stabilità imporrà alla maggior parte degli Stati dell’eurozona un pesante percorso di aggiustamento dei conti pubblici deprimendo la crescita dell’economia. La recente affermazione dell’estrema destra tedesca nasce proprio dalla crisi economica che sta colpendo la Germania.

La seconda strada è quella di puntare sulla crescita proprio per ridurre il rapporto debito/Pil visto che la diminuzione del debito in termini assoluti con tassi d’interesse mediamente elevati è un obiettivo molto difficile da conseguire. Oggi in Italia i dati sulla crescita non sono affatto incoraggianti: dal 2024 il Pil è in sostanziale stagnazione, la produzione industriale sta diminuendo dal secondo trimestre del 2022 e l’apporto del PNRR non ha ancora prodotto una spinta consistente sulla nostra economia. Le dichiarazioni del Ministro dell’Economia al riguardo hanno suscitato notevoli preoccupazioni: Giorgetti ha evocato i piani quinquennali di sviluppo dell’Unione Sovietica per indicare che i vincoli burocratici associati alla spesa di questi fondi ne stanno depotenziando l’impatto. A ciò si aggiunge che non siamo mai stati capaci di spendere i soldi europei in modo rapido ed efficiente, che si tratta pur sempre di un debito e che la parte più consistente dei fondi finora spesi – circa 30 miliardi di euro su 50 – sono legati ai crediti d’imposta per l’industria e per l’edilizia e cioè alle decisioni d’investimento delle imprese.

In questo quadro bisognerebbe ripensare ai crediti fiscali trasferibili che sono uno strumento molto potente per finanziare l’economia ma che purtroppo nel triennio 2021/23 sono stati gestiti in modo assai discutibile dai governi che si sono succeduti. Ci sono due linee d’azione che potrebbero essere perseguite a costo zero. La prima è quella di rendere trasferibili i crediti d’imposta previsti per il piano Industria 5.0. In questo modo le imprese potrebbero disporre di liquidità immediata sfruttando lo sconto in fattura e monetizzando i crediti mentre per lo Stato l’impatto sul bilancio pubblico non cambierebbe: le minori entrate si avranno quando gli sconti fiscali saranno esercitati per pagare meno tasse. La seconda è quella di favorire la circolazione e la monetizzazione dei crediti fiscali fin qui emessi nel settore edilizio, che sono bloccati nei cassetti fiscali dei committenti e delle imprese e che stanno provocando crisi di liquidità, blocco dei cantieri, fallimenti e cassa integrazione.

Il compito del governo dovrebbe essere quello di ripristinare la fiducia su questo strumento garantendo un mercato di scambio fluido ed efficiente con degli acquirenti sicuri come la Cassa Depositi e Prestiti e le imprese partecipate dallo Stato (ENI, ENEL, ecc.) che pagano decine di miliardi di euro di tasse e contributi ogni anno.

La futura riduzione dei tassi d’interesse della Banca Centrale Europea può dare una boccata d’ossigeno alla nostra economia sebbene le decisioni della BCE siano lente di fronte alla gravità della situazione; mentre il progetto di Europa federale invocato da Mario Draghi con investimenti pubblici centralizzati e debito comune incontra l’ostilità della Germania e degli altri paesi nordici e richiederebbe una governance sul modello americano con un Presidente degli Stati Uniti d’Europa, un ministro del Tesoro e così via.

Per concludere, se non rimettiamo in moto la crescita dell’economia, il peso del debito sul Pil sarà destinato ad aumentare aggravando una situazione già molto complicata.

Giovanni Scanagatta, Professore di Politica economica e monetaria all’Università “La Sapienza” di Roma

Stefano Sylos Labini, Gruppo Moneta Fiscale

 

Roma, 23 settembre 2024

 

 

“Il dilemma sull’immigrazione” di Giovanni Scanagatta e Stefano Sylos Labini

Le forze di destra sono in crescita in diversi paesi occidentali come Francia, Italia e Stati Uniti, dove aumentano, alla luce degli ultimi eventi, le possibilità di vittoria di Donald Trump.

Tradizionalmente le forze di destra sono contro l’immigrazione che non è ben vista sia dai lavoratori autoctoni i quali rischiano di perdere il posto di lavoro e di avere retribuzioni più basse, sia dalle classi sociali svantaggiate poiché gli immigrati spesso risiedono nelle aree di periferia più degradate.

Ma la posizione delle forze della destra non è così chiara come sembra perché, a fronte dell’invecchiamento della popolazione, dei problemi della sanità e dei salari interni, l’immigrazione può costituire un’opportunità.

Qualche mese fa, il Governatore della Banca d’Italia, nella lectio magistralis per la laurea honoris causa all’Università Roma Tre, ha sottolineato che l’Europa sta pericolosamente invecchiando e nei prossimi anni “si rischia un forte calo dell’offerta di lavoro e quindi della crescita potenziale dell’economia europea”. Per questo “occorre uno sforzo significativo per consentire un ingresso regolare e controllato di immigrati e la loro integrazione nel mercato del lavoro”. Una questione, sostiene il Governatore, che “non può essere affrontata dagli stati membri singolarmente” e che richiede una “politica di immigrazione comune” per evitare squilibri di “fronte alla pressione asimmetrica” degli arrivi massicci da paesi del Sud del mondo”.

In Italia gli immigrati rappresentano stabilmente un decimo degli occupati e contribuiscono alla produzione di circa il 9% del PIL, con punte ancora maggiori in alcuni comparti come l’agricoltura e l’edilizia: muratori, badanti, braccianti, sono solo alcuni mestieri dove la manodopera immigrata è in crescita continua. Si tratta di settori dove lo sfruttamento dei lavoratori immigrati ha raggiunto livelli intollerabili: il caso recente del lavoratore indiano abbandonato con un braccio mozzato nell’agro pontino ha fatto rabbrividire l’intera Italia.

Dunque la destra si trova nel dilemma del respingimento (i campi di accoglienza in Albania sono un esempio) e dello sfruttamento dell’immigrazione a basso costo in settori a limitata qualificazione professionale. Non a caso, il Governo Meloni ha previsto per il triennio 2023-2025 l’ingresso di oltre 450 mila lavoratori non comunitari, riaprendo di fatto un canale che era rimasto inutilizzato per circa un decennio.

Non va dimenticato che quella che viene chiamata “sinistra” non ha un progetto alternativo, a parte l’invocazione di un’accoglienza che nei fatti produce emarginazione poiché spesso gli immigrati sono abbandonati a loro stessi.

Bisognerebbe, invece, pensare ad un “piano del lavoro” perché chi arriva in Italia deve lavorare e deve avere una retribuzione dignitosa. Ma servono investimenti pubblici e privati dando priorità all’occupazione degli italiani. Il “piano Mattei” per l’Africa è un’idea molto interessante che va nella giusta direzione, ma occorre riempirlo di contenuti e di capacità realizzative. Non dimentichiamo che l’Impero Romano ha mostrato la sua espansione strategica verso l’Africa. L’antica Roma, nella sua espansione, ha sempre pensato all’importanza dell’integrazione di popoli diversi, offrendo la possibilità a tutti di diventare cittadini dell’Impero.

L’Europa manca totalmente di una politica comune e solidale per l’immigrazione e l’integrazione. Non si può andare in questo delicatisssimo campo per ordine sparso, con ogni Paese che pensa a se stesso con proprie politiche, indovinate o non indovinate che siano. Pensiamo al caso della Germania. Le pressioni migratorie non sono simmetriche e occorrono cooperazione e coesione a livello di Unione europea che attualmente non esistono. Altrimenti il rischio è quello di creare disgregazione sociale, criminalità, degrado umano e ristagno economico. L’Europa ha le risorse per evitare uno scenario così negativo.

Giovanni Scanagatta, Professore di Politica economica e monetaria alla “Sapienza” di Roma

Stefano Sylos Labini, Gruppo Moneta Fiscale

 

Roma, 16 luglio 2024

 

 

“Divergenze tra le politiche monetarie della BCE e della Federal Reserve americana” di Giovanni Scanagatta

Per la prima volta dal 2019, la Banca Centrale Europea (BCE) riduce i tassi di interesse. Come si legge nel comunicato stampa, “i tassi di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali, sulle operazioni di rifinanziamento marginale e sui depositi presso la banca centrale saranno ridotti rispettivamente al 4,25%, al 4,50% e al 3,75%, con effetto dal 12 giugno 2024″. Si tratta di un piccolo taglio di un quarto di punto.

Una riduzione attesa dall’Italia per gli effetti riduttivi sul costo del nostro elevato debito pubblico, sulle famiglie per i mutui a tasso variabile e sulle imprese che hanno un elevato quoziente di indebitamento come nel caso delle imprese di piccole e medie dimensioni. Nel 2024 il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo dovrebbe superare il 140%, e una riduzione di un quarto di punto del costo del debito determinerebbe un risparmio intorno ai 7 miliardi di euro.

Un altro aspetto va evidenziato con riferimento alle banche. La riduzione dei tassi, dovrebbe portare come conseguenza alla contrazione del margine di interesse delle banche e quindi dei profitti o extraprofitti. L’effetto lo abbiamo visto con le riduzione delle quotazione di borsa del settore bancario. Si tratta di aspetti controversi che avevano portato all’ipotesi di tassazione degli extraprofitti bancari da parte del Governo, poi rientrata. In ogni caso, il comportamento delle banche riguardante il margine di interesse va analizzato separatamente nella fase ascendente e in quella discendente del costo del denaro.

La cautela nella riduzione dei tassi di policy viene giustificata dalla Presidente della BCE con il fatto che certamente l’inflazione nell’Unione Europea cala, ma rimane ad un livello che non è ancora vicino all’obiettivo del 2%. Ma c’è un’altra variabile che la BCE guarda, anche se non costituisce direttamente obiettivo della Banca Centrale, riguardando il tasso di cambio. Si tratta dei differenziali di interesse tra il dollaro e l’euro, già a favore della moneta americana prima dell’ultima decisione di riduzione da parte del Consiglio Direttivo. Poiché la Federal Reserve americana non ha variato i tassi di politica monetaria, tale differenziale si amplia ulteriormente e incide in modo negativo sul rapporto di cambio tra euro e dollaro. Infatti, il tasso di cambio della moneta europea si è deprezzato in pochi giorni scendendo da 1,09 a 1,07 dollari per euro, con una perdita di circa il 2%. Può aumentare pertanto l’inflazione importata e questo preoccupa la Presidente Lagarde. Ma andrebbe anche considerato l’effetto di un tasso di cambio dell’euro più debole rispetto al dollaro, per gli effetti positivi sulla competitività delle esportazioni europee. Questo è certamente utile per sostenere la bassa crescita dei Paesi dell’Unione, a partire dalla Germania.

Qualche considerazione infine sulla decisione della Federal Reserve americana di lasciare invariati, nella decisione del 12 giugno, i tassi di interesse di policy. Si tratta delle spese federali che tengono sostenuta la domanda, la crescita dei salari orari e il buon andamento del mercato del lavoro. L’inflazione corre ad un tasso superiore al 3% e ciò giustificherebbe la politica prudente della Federal Reserve nell’abbassare i tassi di interesse.

Giovanni Scanagatta

Professore di Politica economica e monetaria all’Università “Sapienza” di Roma

 

Roma, 12 giugno 2024

“Internazionalizzazione della imprese, redditività, rischi” di Giovanni Scanagatta

Di solito, quando si parla dell’internazionalizzazione delle imprese, si fa riferimento al fatturato esportato o, a livello generale, all’incidenza delle esportazioni di un Paese sulle esportazioni mondiali.

Le esportazioni italiane su quelle mondiali pesano per il 2,6% nel 2022, in aumento rispetto all’anno precedente con un peso del 2,4%. La quota italiana è seconda solo a quella tedesca, 6,6%, e superiore a quella di Francia, 2,5%, Regno Unito, 2,1%, e Spagna, 1,7%.

Ma le forme di internazionalizzazione vanno molto al di là delle esportazioni e comprendono gli accordi di collaborazione tecnica, produttiva, di ricerca e sviluppo con imprese estere, lo scambio di brevetti e licenze, i programmi di penetrazione commerciale, gli investimenti diretti esteri.

Le diverse forme di internazionalizzazione tendono a svilupparsi in mercati sempre più ampi e integrati. Naturalmente, con le sviluppo delle varie forme di internazionalizzazione delle imprese, tendono a modificarsi le strutture delle bilance dei pagamenti. Per esempio, invece di esportare verso un determinato Paese, possono crescere gli investimenti diretti con la produzione nello stesso Paese di beni per servire il mercato locale o mercati dell’area. Gli stessi beni prodotti possono originare importazioni dirette verso il nostro Paese. In questo modo tendono a diminuire le esportazioni e a crescere le importazioni, ma altre voci della bilancia dei pagamenti si modificano. Prima di tutto, la parte relativa ai movimenti di capitali attraverso gli investimenti diretti esteri e poi le partite correnti per i redditi di capitale. Anche la parte dei servizi delle partite correnti della bilancia dei pagamenti può cambiare perché alcune funzioni aziendali più elevate come il controllo, la finanza, le attività di ricerca e sviluppo e il marketing rimangono in casa, mentre le produzioni si svolgono all’estero. La parte dei servizi delle partite correnti della bilancia dei pagamenti può pertanto migliorare, compensando in tutto o in parte la diminuzione delle esportazioni. Nel lungo periodo non si può pertanto escludere l’equilibrio complessivo della bilancia dei pagamenti, ma con una struttura completamente diversa.

Alla luce della breve analisi svolta sopra, dobbiamo chiederci come si muovono il rendimento atteso e il rischio per le imprese che sono internazionalizzate solo con le esportazioni e quelle invece che lo sono con tutte le altre forme. L’evidenza empirica mostra che le imprese con forme di internazionalizzazione complesse beneficiano di una combinazione rendimento- rischio migliore, cioè di un rendimento atteso più alto e di un rischio più basso. Le imprese invece che sono internazionalizzate solo attraverso le esportazioni, hanno una combinazione rendimento-rischio peggiore: rendimento atteso basso e rischio alto. Il risultato può essere compreso solo pensando alla maggiore competitività raggiungibile attraverso la collaborazione con imprese estere nel campo delle attività di ricerca e sviluppo e nello scambio di brevetti e licenze.

La globalizzazione e l’accelerazione del progresso scientifico e tecnico hanno modificato profondamente gli scenari e la competizione a livello mondiale richiede sempre di più alle imprese di internazionalizzarsi e non solo di esportare, e di entrare in nuovi mercati e in nuove aree. Da questo punto di vista, diventa sempre meno fondamentale la quota delle esportazioni sul totale mondiale e più importante la quota di mercato mondiale controllata dalle imprese nei diversi settori, indipendentemente dai luoghi in cui si produce in relazione alle convenienze relative e ai mercati da servire. Nella misura in cui ciò avviene, non possiamo parlare di deindustrializzazione, ma di una diversa presenza delle nostre imprese, in relazione ai nuovi modi di competere in mercati globalizzati.

Rispetto a tali tendenze, è doveroso accennare alla questione delle crescenti difficoltà di gestire le catene del valore a livello mondiale in presenza di pandemie e soprattutto di guerre, come stiamo purtroppo sperimentando. In tali scenari, aumenta la propensione al reshoring, riportando a casa produzioni in precedenza delocalizzate.

Giovanni Scanagatta

Professore di Politica economica e monetaria all’Università “Sapienza” di Roma

 

Roma, 25 maggio 2024           

“L’alto prezzo dell’oro e le politiche monetarie delle banche centrali” di Giovanni Scanagatta

Nell’ultimo anno si è assistito ad un aumento fortissimo del prezzo dell’oro, sia in dollari che in euro. L’aumento annuo del prezzo dell’oro nella moneta americana è stato del 20,3% e quello nella moneta europea del 23,7%. I corrispondenti cambi di parità rispetto all’oro, all’inizio e alla fine del periodo, sono stati di 1, 09 dollari per euro e di 1,06.

Questo forte aumento del prezzo dell’oro fa ricordare il saggio del 1811 del grande economista inglese D. Ricardo sull’alto prezzo dell’oro e sulla controversia bullionista e anti-bullionista, o della scuola bancaria. Ricardo sosteneva che l’eccessiva circolazione di moneta in Inghilterra aveva determinato il forte aumento dei prezzi e per questa via la svalutazione della sterlina. Gli esponenti della scuola bancaria ritenevano invece che la causa del deprezzamento della sterlina dipendeva dal deficit della bilancia dei pagamenti, a sua volta determinato dalle rimesse e dal cattivo raccolto dovuto alla siccità. La relazione veniva invertita ed era l’aumento dei prezzi che determinava l’espansione della circolazione monetaria e non viceversa, come previsto dalla teoria quantitativa della moneta.

La domanda che sorge oggi spontanea riguarda le cause di questo spettacolare aumento del prezzo dell’oro. Sono due le cause che qui si pongono in evidenza. La prima riguarda la relazione negativa tra il prezzo dell’oro in dollari e il tasso di interesse reale (tasso nominale al netto dell’inflazione) sulla moneta americana. La seconda si riferisce all’aumento del prezzo dell’oro a causa della domanda per fini di investimento e della domanda da parte delle banche centrali, soprattutto Cina e Paesi Arabi. Si tratta, nel secondo caso, di una domanda connessa ai crescenti rischi geopolitici e geoeconomici a livello mondiale dovuti alle guerre.

Si ricorda che l’offerta di oro si colloca ogni anno tra le 4 mila e le 5 mila tonnellate e la domanda risulta mediamente così ripartita: 50% oreficeria, 10% tecnologia, 20% investimento e 20% acquisti da parte delle banche centrali.

L’offerta di oro è nel breve termine sostanzialmente rigida al prezzo perché la capacità produttiva delle miniere è sostanzialmente data e l’offerta muta solo grazie alla variazione delle scorte. L’offerta può invece variare sensibilmente nel lungo periodo grazie agli investimenti e al progresso tecnico. Una crescita della domanda determina quindi nel breve periodo aumenti del prezzo dell’oro superiori a quelli che ci sarebbero se l’offerta fosse elastica al prezzo.

Ma appuntiamo ora l’attenzione sulle politiche monetarie delle Banche Centrali e, in particolare, sulle due più importanti a livello mondiale: la Banca Centrale Europea (BCE) e la Federal Reserve americana, FED. Nelle ultime riunioni, le due Banche Centrali hanno lasciato immutati i tassi di interesse di policy intorno al 5%, con un differenziale a favore del dollaro.

Si dice che nelle prossime riunioni le due Banche Centrali ridurranno i tassi di interesse, in relazione alle conferme della discesa dei tassi di inflazione. E’ certamente sperabile che cio avvenga, soprattutto per l’Italia che ha un alto rapporto tra debito pubblico e PIL, ma se guardiamo ai prezzi dell’oro e misuriamo l’inflazione con il prezioso metallo, le speranze di una riduzione dei tassi di interesse si fa più flebile. I tassi di interesse reali sia sul dollaro che soprattutto sull’euro, impiegando l’inflazione misurata dagli aumenti del prezzo dell’oro, sono largamente negativi e ciò, come detto, spinge verso l’alto la domanda di oro e il suo prezzo. Ci sono poi i venti di guerra che soffiano sempre più impetuosi e questo imprime ulteriore spinta alla domanda di oro.

In questo scenario, la situazione dell’Italia appare non facile e l’unica strada possibile da percorrere è quella di spingere sugli investimenti per la crescita del reddito, investendo meglio e più velocemente le grandi risorse del PNRR e valutando con più serenità gli effetti degli incentivi fiscali a favore del settore delle costruzioni, pur con le necessarie misure per evitare i comportamenti fraudolenti.

  
Giovanni Scanagatta
Professore di Politica economica e monetaria alla “Sapienza” di Roma

“La terza Bretton Woods?” di Giovanni Scanagatta

In questi giorni si è parlato poco dell’abilità della Banca centrale russa nella gestione della politica monetaria.
 
Le mosse indovinate della Banca centrale russa sono sostanzialmente tre. La prima riguarda l’indicazione finale di pagare le fonti di energia esportate dalla Russia in rubli. La seconda è l’acquisto di significative quantità di oro da parte della Banca centrale utilizzando i dollari delle riserve valutarie. La terza è la decisione di fare fronte ad una rata di debito esterno in scadenza attraverso un pagamento in dollari. Queste tre decisioni, accompagnate da quella di un forte rialzo dei tassi di interesse, hanno fatto ritornare il cambio del rublo rispetto al dollaro tra i 70 e gli 80 rubli, dopo avere toccato il picco di 140. Per quanto riguarda il debito pubblico estero della Russia, va ricordato che questo è molto basso rispetto a tutti gli altri Paesi.
 
La decisione della Russia di fare pagare le proprie esportazioni in rubli va allargata ad altri Paesi con riferimento alla rispettiva moneta, a partire dalla Cina. Non va dimenticato che circa il 60% delle esportazioni russe sono rappresentate da fonti energetiche, l’11% da metalli e prodotti in metallo, l’8% da concimi per l’agricoltura e fosfati, il 7% da cereali.
 
Immaginiamo cosa succederebbe se la Cina obbligasse a pagare le proprie esportazioni nella propria moneta e, grazie ad accordi, questo Paese potesse pagare le proprie importazioni sempre nella propria moneta. Potrebbe essere l’inizio della dedollarizzazione, dopo anni di incontrastata sovranità monetaria mondiale del dollaro come mezzo intermediario degli scambi e riserva di valore.
 
Storicamente potrebbe aprirsi un mondo da terza Bretton Woods, dopo la prima del luglio 1944 con il predominio del dollaro convertibile in oro e la seconda che segue dopo la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro nel 1971. Si è passati pertanto pertanto dal gold exchange standard con cambi fissi al dollar standard con tassi di cambio variabili.
 
Non dimentichiamo che il crollo della prima Bretton Woods nel 1971 ha avuto importanti segni premonitori alcuni anni prima da parte della Francia di De Gaulle.  Infatti i problemi della sovranità monetaria internazionale del dollaro erano sorti con lo scontro tra la Francia e gli Stati Uniti nel 1965. De Gaulle, consigliato dall’economista francese J. Rueff, agì attraverso la Banca centrale della Francia cambiando i dollari delle riserve in oro. De Gaulle ne spiegò le ragioni in una conferenza stampa durante la quale sostenne che gli Stati Uniti d’America stavano manipolando a suo piacimento il sistema monetario mondiale e che il suo Paese, da quel momento, avrebbe fatto il possibile per emancipare i suoi scambi commerciali dal monopolio della moneta americana.
 
La nostra chiave di lettura degli avvenimenti degli ultimi mesi va molto al di là della triste guerra in Ucraina e crediamo si incontri molto bene con il titolo dell’ultimo numero della prestigiosa Rivista Limes: “La Russia cambia il mondo”.  
 
Giovanni Scanagatta
Professore di Politica economica e monetaria alla “Sapienza” di Roma