“La bassa crescita delle imprese italiane rispetto alle imprese americane” a cura di Giovanni Scanagatta

LA BASSA CRESCITA DELLE IMPRESE ITALIANE RISPETTO ALLE IMPRESE AMERICANE

Giovanni Scanagatta*

Ci sono diversi metodi per misurare la crescita delle imprese e qui viene proposto il metodo delle quotazioni di borsa. Secondo tale metodo, il rapporto tra prezzo delle azioni e utili per azione è uguale al reciproco del tasso di interesse reale meno il tasso di crescita atteso dell’impresa, al netto della variabilità di questo tasso. Il secondo termine va poi moltiplicato per il rapporto tra dividendi e utili.

Il metodo presenta alcuni problemi connessi alla variabilità del prezzo delle azioni sul mercato di borsa e alla politica dei dividendi da parte delle imprese. In relazione alla politica dei dividendi, l’impresa dovrebbe mandare segnali “corretti” al mercato con una relazione equilibrata tra gli stessi e la redditività dell’impresa. Perché, al limite, l’impresa potrebbe essere in perdita e distribuire ugualmente dividendi attraverso l’indebitamento.

Sul tema della distribuzione dei dividendi è interessante ricordare la diatriba tra H. Ford e il fratelli Dodge all’inizio del novecento con l’avvio della motorizzazione diffusa. I fratelli Dodge, che avevano investito capitali nella società automobilistica, avevano fatto causa a Ford perché distribuiva scarsi utili agli azionisti. Ford giustificava questa politica affermando che era importante remunerare adeguatamente i dipendenti per consentire loro l’acquisto delle automobili fabbricate dalla Ford, piuttosto che distribuire lauti dividendi agli azionisti. Ford perse la causa e questo fa capire l’orientamento del capitalismo americano di quell’epoca. Emerge qui l’importanza della domanda effettiva keynesiana per raggiungere un livello di produzione compatibile cn una bassa disoccupazione. In questo modo viene rovesciata la teoria degli sbocchi di Say: non è l’offerta che crea la propria domanda ma l’inverso.

Ci si propone ora di confrontare la crescita attesa di tre imprese americane con tre italiane utilizzando il metodo delle quotazioni di borsa. Le imprese americane sono Apple, Starbucks e Nike; quelle italiane sono Enel, Eni e Leonardo.

Apple ha un rapporto prezzo delle azioni/utili di 39 (18/02/2025), un prezzo delle azioni di 241 dollari e una capitalizzazione di borsa di 3674 miliardi. Colpisce la capitalizzazione di borsa di Apple, pari al 50% in più del prodotto interno lordo italiano. In questo caso, il rendimento istantaneo delle azioni Apple è del 2,6%, naturalmente nell’ipotesi che venga acquistata un’azione Apple prima del pagamento del dividendo e venga venduta subito dopo, nell’ipotesi che in questo breve lasso di tempo non ci siano variazioni del prezzo del titolo. SE invece il titolo viene tenuto per un tempo superiore, bisogna aggiungere al rendimento connesso al dividendo, il guadagno o la perdita in relazione all’andamento del titolo stesso. Per esempio, nelle ultime 52 settimane, la differenza tra il prezzo massimo e quello minimo delle azioni Apple è stato notevole, 260 contro 164, con una variazione percentuale in un anno del 59%. Se, ipoteticamente, un investitore avesse comperato il titolo Apple a 164 all’inizio dell’anno e venduto a 260 alla fine dell’anno, il rendimento complessivo sarebbe di quasi il 62%, compreso il dividendo di circa 6 dollari per azione.

Starbucks presenta un rapporto prezzo delle azioni/utili di 36, un prezzo delle azioni di 113 dollari e una capitalizzazione di borsa di 128 miliardi.

Nike ha un rapporto prezzi/utili di 23, una quotazione di 73 dollari per azione e una capitalizzazione di borsa di 108 miliardi.

Calcoliamo ora, usando la formula sopra indicata, il tasso di crescita atteso delle tre società americane, supponendo un tasso di interesse reale del 3% e una distribuzione dei dividendi pari al 50% degli utili.

La crescita attesa di Apple è del 2,7%, quella di Starbucks del 2,6% e la crescita attesa di Nike dell’1,8%.

Vediamo ora i rapporti prezzi/utili di Enel, Eni e Leonardo, nonché i rispettivi prezzi delle azioni e le capitalizzazioni.

Enel ha una capitalizzazione di borsa di 69 miliardi, un prezzo delle azioni di 6,8 euro e un rapporto tra prezzo e utili delle azioni di 10.

Eni ha una capitalizzazione di borsa di 46 miliardi, un prezzo per azione di 14 euro e un rapporto tra prezzo delle azioni e utili di 18.

Leonardo presenta una capitalizzazione di borsa di 17 miliardi, un prezzo per azione di 35 euro e un rapporto prezzo/utili di 19.

Sulla base di questi dati, la crescita attesa di Enel è di -0,1%, di Eni dell’1,2%, di Leonardo dell’1,4%.

Come si nota, la crescita attesa delle tre società americane è decisamente superiore a quella delle tre società italiane.

Vediamo ora la crescita attesa delle sei società considerate nell’ipotesi di un rapporto tra dividendi e utili non più pari al 50% ma al 30%.

Ecco i risultati:

Apple: 3,2%

Nike: 2,7%

Starbucks: 3,1%

 Il grafico seguente illustra le crescite attese delle sei società analizzate sulla base del rapporto tra prezzo e utili per azione nelle due ipotesi di dividendi del 50 e del 30%.

 GRAFICO

Il grafico mostra che quando le società trattengono una maggiore quota degli utili, aumenta la crescita attesa. In questo modo le imprese hanno maggiore risorse per gli investimenti, soprattutto per finanziare le spese in ricerca e sviluppo, e in questo modo si può accrescere lo sviluppo dell’impresa.

Riferendoci al caso Apple, se la società avesse trattenuto tutti gli utili, il tasso di crescita atteso salirebbe al 4%.

In definitiva, il tasso di crescita atteso di una società, secondo il metodo delle quotazioni di borsa, dipende dal rapporto tra prezzo delle azioni e utili per azione, dal rapporto tra dividendi e utili e dal rischio connesso alla variabilità della crescita attesa, a parità di tasso di interesse reale. Naturalmente, maggiore è il tasso di variabilità della crescita attesa, che va visto come un indicatore di rischio, maggiore sarà la crescita attesa con una relazione positiva con il rischio.

*Professore di Politica economica e monetaria all’Università di Roma “La Sapienza”

 

 

“L’alto prezzo dell’oro: la storia si ripete” a cura di Giovanni Scanagatta e Stefano Sylos Labini

L’ALTO PREZZO DELL’ORO: LA STORIA SI RIPETE

Giovanni Scanagatta*  Stefano Sylos Labini**

Nel 1811, il grande economista inglese Davide Ricardo ha scritto un’importante monografia sull’alto prezzo dell’oro. Sulle cause, si contrapponevano due scuole: banking school e currency school. Ricardo era sostenitore della currency school e attribuiva l’alto prezzo dell’oro all’eccesso di creazione di moneta che determinava una svalutazione della sterlina rispetto all’oro. La banking school riteneva invece che l’alto prezzo dell’oro dipendesse dal deficit della bilancia commerciale britannica, a causa soprattutto del cattivo raccolto.

Negli ultimi 50 anni il prezzo dell’oro ha mostrato un trend stabilmente crescente, con contenute oscillazioni attornio al trend. Attualmente (21/1/2015) il prezzo dell’oro fino ha raggiunto la punta di 85 euro al grammo e si prevede che fra non molto arriveremo ai 100 euro. Il prezzo a termine ad un anno supera il valore della parità al tasso d’ interesse, con un prezzo vicino ai 90 euro al grammo.

L’oro, come è noto, costituisce il bene rifugio per eccellenza contro l’inflazione e le incertezze di tipo geopolitico e geoeconomico. Altrettanto succede per le criptovalute, a partire dalla più conosciuta: il bitcoin. Il novo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha lanciato una sua criptovaluta che in pochi giorni è aumentata del 600%. Ma le criptovalute, a differenza dell’oro, hanno un prezzo che mostra un’alta volatilità.

Trump ha anche disposto che la Federal reserve detenga bitcoin nelle proprie riserve valutarie e questo offre la possibilità di intervenire sul mercato aperto per stabilizzarne il prezzo.

La svolta verso le criptovalute della politica americana offre anche l’opportunità di allentare lo scontro con i BRICS che non tollerano più il dollaro come moneta egemone mondiale. Questa tendenza può consentire agli USA di subire meno i contraccolpi sul cambio della propria moneta a causa di eventi difficilmente controllabili. Le criptovalute diventerebbero in questo modo moneta privata (peer to peer) mondiale indipendente dalle politiche monetarie discrezionali delle banche centrali, a partire dalla Federal reserve americana, Anche la Banca centrale europea (BCE) dovrebbe riflettere a fondo su queste problematiche pensando ad un nuovo ordine monetario mondiale.

Un aspetto interessante riguarda la relazione tra i prezzi dell’oro e quelli dei bitcoin. L’evidenza empirica mostra che in alcuni periodi la correlazione è positiva e significativa. Ma in altri, la correlazione è nulla e anche negativa. E’ quindi opportuno, per gli avversi al rischio, diversificare i portafogli detenendo una quota di oro assieme ai bitcoin.

Un’ultima considerazione riguarda il tasso di cambio del dollaro che si è apprezzato in concomitanza con la presidenza Trump, raggiungendo quasi la parità con l’euro. E questo è un problema per Trump perché deve fare fronte all’enorme deficit della bilancia commerciale  americana. Può ricorrere ai dazi, ma questo risulta problematico perché i dazi aumentano le spinte inflazionistiche a causa della rigidità della domanda, chiamando in causa politiche monetarie restrittive che frenano la crescita e l’occupazione.

La corsa all’oro e alle criptovalute dovrebbe frenare l’apprezzamento del dollaro, contribuendo al riequilibrio della bilancia commerciale americana.

*Professore di Politica economica e monetaria all’Università di Roma “La Sapienza”

**Gruppo Moneta Fiscale

“Quale sarà la politica monetaria della Federal Reserve e della BCE nel 2025?” a cura di Giovanni Scanagatta

QUALE SARA’ LA POLITICA MONETARIA DELLA FEDERAL RESERVE E DELLA BCE NEL 2025?

Giovanni Scanagatta*

Siamo agli inizi del 2025 ed è utile chiedersi quale potrebbe essere la politica monetaria della Federal reserve americana e della Banca Centrale Europea nel corso dell’anno. Naturalmente, le valutazioni vanno fatte alla luce del nuovo scenario che si è venuto a creare con l’elezione di Donald Trump a nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America.

Uno degli obiettivi fondamentali dichiarati da Trump in campagna elettorale è quello del riequilibrio della bilancia commerciale americana che presenta un enorme e crescente deficit, soprattutto nei confronti dell’Europa e della Cina. Per questo, ha minacciato l’introduzione di dazi all’importazione, anche se tale misura tende a spingere verso l’alto l’inflazione, in presenza di una domanda sostanzialmente rigida dei beni importati. Ciò chiamerebbe in causa politiche monetarie restrittive con il rialzo dei tassi di interesse di policy, con conseguenze negative per la crescita e l’occupazione. Ma esiste anche lo strumento del tasso di cambio del dollaro che Trump vuole abbastanza debole per favorire le esportazioni.

Come abbiamo visto, prima e subito dopo l’insediamento del nuovo Presidente americano, il dollaro si è notevolmente apprezzato rispetto all’euro, raggiungendo quasi la parità. Negli ultimi giorni, invece, la forza del dollaro si è notevolmente attenuata con un deprezzamento in poco tempo di quasi il 4%. Le quotazioni a termine ad un anno mostrano livelli ancora più alti della parità del cambio a termine sulla base del differenziale d’interesse tra gli Usa e l’Europa, indicando aspettative di ulteriore deprezzamento del dollaro.

Queste tendenze del dollaro si possono collegare ai notevoli acquisti di oro da parte delle principali banche centrali e, in particolare, della Cina e della Russia. Ma anche alla grande domanda di criptovalute, in primis il bitcoin. Tutto ciò può attenuare il conflitto americano con i BRICS che vogliono creare un sistema di pagamenti non più basato sull’egemonia mondiale del dollaro, ma sulle criptovalute, sull’oro e su monete paniere. Anche l’oro ha subito dei forti aumenti negli ultimi mesi, con un trend regolare e stabile di crescita e modeste oscillazioni attorno al trend, a differenza del bitcoin che mostra un’alta volatilità.

L’economia europea ristagna e la crescita trainata dalle esportazioni, pensiamo alla Germania, incontra sempre maggiori ostacoli, soprattutto alla luce della politica dei dazi di Trump. L’Europa deve pensare ad un grande programma di investimenti pubblici e privati per migliorare la sua competitività e la crescita, piuttosto che pensare solo all’introduzione di nuove regole che appesantiscono e ingessano l’economia. Non dimentichiamo che Trump ha creato un nuovo Ministero per sburocratizzare il sistema economico e sociale.

In questo quadro negativo per l’Europa, l’economia italiana è quella che va meglio, anche se non mancano i problemi come, ad esempio, la realizzazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Sono troppi gli impacci burocratici a livello statale e locale che frenano l’esecuzione veloce ed efficace del PNRR. Va inoltre ricordata che gran parte delle risorse del PNRR va rimborsata, trattandosi di debiti. La parte a fondo perduto è molto più bassa, in confronto alla Spagna che è la seconda beneficiaria dell’Unione europea in termini di risorse ricevute.

Se il dollaro si deprezza, sono danneggiate le esportazioni europee e quindi quelle italiane. C’è quindi da chiedersi come potrebbe reagire la BCE di fronte a questa situazione, anche se bisogna ricordare che l’obiettivo primario della BCE è quello di difendere il potere d’acquisto della moneta. Ma non può dimenticare l’obiettivo della crescita e dell’occupazione e quindi dovrebbe continuare ad allentare la politica monetaria con un continuo ribasso dei tassi di interesse. Si profila pertanto, come del resto sta già avvenendo, uno scenario di riduzione parallela dei tassi di interesse di policy da parte della Federal reserve americana e della Banca Centrale Europea.     

*Professore di Politica economica e monetaria all’Università di Roma “La Sapienza”  

 

Roma, 1 febbraio 2025

“La crisi dell’Unione Europea e il modello dell’Impero degli Asburgo” a cura di Giovanni Scanagatta

LA CRISI DELL’UNIONE EUROPEA E IL MODELLO DELL’IMPERO DEGLI ASBURGO

1.Scopo del presente contributo è di presentare un’ipotesi suggestiva e certamente ardita di quanto l’Unione europea potrebbe imparare dal modello dell’impero degli Asburgo per uscire dalla crisi che l’attanaglia.

L’Impero Asburgico, che si estese dal 1278 al 1918, cioè 640 anni, rappresenta una delle realtà politiche più longeve e complesse della storia europea. Sotto il dominio della Casa d’Austria, l’impero seppe mantenere una straordinaria stabilità e prosperità per secoli, attraversando numerosi cambiamenti geopolitici e conflitti. La sua grande forza ed efficienza si manifestarono sia sul piano militare che su quello amministrativo, economico e culturale.

L’inizio dell’era asburgica come potenza imperialista risale al 1278, con la vittoria di Rodolfo I d’Austria nella battaglia di Dürnkrut, che gli permise di divenire imperatore del Sacro Romano Impero. Da questo momento, la Casa d’Austria riuscì a consolidare il proprio potere attraverso matrimoni strategici, alleanze politiche e la gestione abile delle risorse interne. La dinastia asburgica acquisì vasti territori che si estendevano ben oltre i confini dell’Austria, abbracciando aree come i Paesi Bassi, la Spagna, l’Ungheria, la Boemia e la Lombardia.

Uno degli aspetti che più ha caratterizzato la forza dell’Impero Asburgico fu il suo esercito, che si distinse per la sua disciplina, la capacità di adattarsi alle nuove tecniche di guerra e la strategica posizione geografica che permetteva all’impero di affrontare nemici su più fronti. Le guerre di successione, come quella di Maria Teresa d’Austria, o i conflitti contro l’Impero Ottomano e la Francia, mostrarono l’efficacia di un esercito ben equipaggiato e motivato.

Nel XVIII secolo, sotto il governo di Maria Teresa e del figlio Giuseppe II, l’impero si dotò di una riforma militare che garantì una maggiore efficienza nelle operazioni belliche, rafforzando la capacità di difesa e di proiezione del potere oltre i confini. L’esercito austriaco si distinse anche per la sua capacità di combattere contro nemici più grandi, come le forze napoleoniche. La sua resistenza durante le guerre napoleoniche, pur non riuscendo a mantenere intatti i territori imperiali, dimostrò una notevole resilienza.

Uno degli aspetti distintivi dell’Impero Asburgico fu il suo sistema amministrativo e la gestione di un’entità politica così eterogenea. L’impero comprendeva territori che oggi fanno parte di numerosi Stati dell’Europa Centrale e Orientale, e la sua efficienza risiedeva nel riuscire a governare popolazioni con lingue, religioni e tradizioni diverse.

Il sistema amministrativo asburgico si basava su una struttura centralizzata che, pur rispettando la diversità regionale, permetteva un controllo efficace da parte della corte imperiale di Vienna. Le riforme di Maria Teresa e Giuseppe II modernizzarono l’amministrazione, creando una burocrazia efficiente che favorì il progresso sociale ed economico. Tuttavia, l’elemento che garantì la continuità del potere asburgico fu la capacità di adattarsi alle circostanze politiche e di bilanciare i diversi interessi delle sue varie province.

Sul piano economico, l’Impero Asburgico sviluppò un sistema che stimolò sia l’agricoltura che l’industria. Le riforme agrarie di Maria Teresa permisero una maggiore produttività nelle terre, mentre il libero commercio all’interno dell’impero contribuì alla crescita di città come Vienna, Praga e Budapest. Inoltre, il controllo di importanti rotte commerciali tra Oriente e Occidente, grazie alla sua posizione strategica, permise all’impero di accumulare ricchezze e potere.

Il commercio di merci come il sale, il grano, il vino e i tessuti, unito a un sistema bancario che favoriva gli scambi commerciali, rinforzò l’economia asburgica. Le riforme fiscali di Giuseppe II migliorarono l’efficienza della raccolta delle imposte, ma furono anche accompagnate da una crescita delle spese per sostenere un apparato militare sempre più costoso.

L’impero Asburgico si caratterizzava per una solida moneta, come il tallero di Maria Teresa che, come nome, ricorda il dollaro. Si tratta di una condizione fondamentale per uno sviluppo economico sano e solido nel tempo.  Il tallero di Maria Teresa d’Austria è una moneta d’argento coniata a partire dal 1741, durante il regno dell’Imperatrice Maria Teresa, ed è stata ampiamente utilizzata in molte parti d’Europa e nei territori dell’Impero Asburgico. Il tallero pesa circa 28 grammi.

Il recto della moneta presenta il ritratto di Maria Teresa, (Maria Teresa, per grazia di Dio, Imperatrice), mentre il verso mostra l’arma dell’Imperatrice, con una corona e uno scudo araldico, accompagnato dalla data di coniazione e il valore tallero. La moneta divenne simbolo di stabilità economica ed è stata utilizzata come moneta di riferimento in diverse nazioni anche dopo la morte dell’Imperatrice.

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L’Impero Asburgico fu anche un grande centro di produzione culturale. Vienna, la capitale, divenne uno dei principali centri culturali d’Europa, accogliendo artisti, musicisti, filosofi e letterati provenienti da tutta Europa. La musica, in particolare, ha visto un enorme sviluppo, con compositori come Wolfgang Amadeus Mozart, Ludwig van Beethoven e Franz Schubert che contribuirono a fare di Vienna la capitale della musica classica.

L’impero, sotto il governo degli Asburgo, promosse anche la scienza e la filosofia, con l’istituzione di università e accademie. La corte di Vienna fu un luogo di grande fervore intellettuale, in cui si svilupparono idee che influenzarono profondamente l’Europa. Le riforme educative e le iniziative per l’alfabetizzazione aumentarono notevolmente il livello culturale della popolazione.

Nonostante la sua grande forza e l’efficienza amministrativa, l’Impero Asburgico incontrò nel XIX secolo numerose difficoltà. Il nazionalismo crescente, le tensioni tra i vari gruppi etnici e le sfide poste dalle guerre napoleoniche indebolirono l’impero. La crisi del 1848, le guerre contro il Regno di Sardegna e la crescente pressione di potenze emergenti come la Prussia portarono alla fine del dominio degli Asburgo su gran parte dei territori europei.

La Prima Guerra Mondiale segnò la fine definitiva dell’Impero Asburgico nel 1918, con la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico. Tuttavia, nonostante la sua fine, l’eredità culturale, amministrativa e militare degli Asburgo continua a influenzare l’Europa anche nel XX e XXI secolo.

  1. L’Impero Asburgico, con la sua grande forza militare, la sua efficienza economica e amministrativa e la sua ricca tradizione culturale, rappresenta uno dei modelli più significativi di governo in Europa. La sua capacità di adattarsi ai cambiamenti storici e di gestire una realtà complessa e multiculturale lo ha reso uno degli imperi più longevi della storia. Pur affrontando numerose sfide nel corso dei secoli, la sua eredità è ancora viva in molti aspetti della vita moderna europea.

Gli Asburgo hanno saputo tenere in piedi e amministrare in modo sapiente e illuminato un impero che andava da oriente ad occidente, compresi i Balcani. Su questo l’Europa ha sostanzialmente fallito perché non ha saputo tenere insieme, come affermava Giovanni Paolo II, i due polmoni per respirare e salire in alto, cioè l’oriente e l’occidente dell’Europa, compresa la Russia.

Si doveva andare avanti sulla strada tracciata dall’unificazione delle due Germanie, Est e Ovest, ma non si è stati capaci per mancanza di visione storica e per l’incapacità di superare gli interessi nazionali che era indispensabile per costruire un’Unione europea forte e coesa. Si pensava, erroneamente, che fosse sufficiente la creazione della moneta unica perché tutto il resto sarebbe seguito secondo un meccanismo di tipo automatico, in forza di un pensiero di tipo illuministico. Si tratta della teoria funzionalista tanto cara ai francesi.

Un altro elemento che ha consentito per tanti anni la vita e il buon funzionamento dell’impero asburgico, come fattore di coesione, sono le radici cristiane, che sono invece state svilite con la nascita dell’Unione europea, rifiutando di inserire nella premessa della carta costituzionale questa fondamentale verità, su cui si era battuto con grande forza, ma inutilmente, Giovanni Paolo II.

  1. Il frantumarsi dell’impero asburgico ha avuto conseguenze negative per tutta l’Europa dopo la prima guerra mondiale. A questo contribuì fortemente il nefasto Trattato di Parigi del 1919 che mise in ginocchio la Germania con i pesantissimi pagamenti dei debiti di guerra.

E’ interessante ricordare che contro le ingiustizie del Trattato di Parigi del 1919, il grande economista inglese J.M. Keynes decise di dimettersi dalla Commissione economica, in rappresentanza del governo inglese. Nell’autunno del 1919 pubblicò, come atto di accusa contro il Trattato, la famosa monografia “Le conseguenze economiche della pace”. In tale monografia denunciò, tra l’altro, le gravi conseguenze economiche per tutti i paesi europei degli ostacoli posti alle relazioni commerciali tra la Germania e la Russia. Questo grave errore lo aveva ben capito, molti anni dopo, Angela Merkel che favorì con decisione i rapporti economici e commerciali tra la Russia e la Germania unificata. Poi però la storia ha fatto un salto indietro e l’Europa è ritornata a colpire con le sanzioni economiche la Russia, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.

  1. Ma torniamo al modello dell’impero degli Asburgo e alle conseguenze economiche della sua caduta dopo la prima guerra mondiale. Ne troviamo un’efficace sintesi nell’Introduzione al Bollettino economico della Banca Commerciale Italiana del 1931. Così si legge: “Il frantumarsi della Monarchia d’Asburgo spezzò una vasta unità industriale agrario-finanziaria, la quale serviva come ponte di passaggio tra l’Oriente europeo e l’Occidente, fra il mare del Nord e i paesi balcanici e il Sud. Tutto il commercio europeo si era stabilizzato sulla esistenza del sistema dei trasporti austro-ungarici, con le sue tariffe differenziali, sui metodi creditizi delle banche viennesi specializzate nel finanziamento caratteristico del Balcani; e nell’interno del vasto impero si era creata una perfetta divisione economica della produzione e del lavoro. Così una vasta zona territoriale con circa sessanta milioni di abitanti, posta al centro del sistema economico europeo, venne dopo la guerra a rappresentare uno dei punti di maggiore debolezza del nostro Continente e dal 1922 in poi visse con puntelli e con sistemi di artificio, che la crisi doveva far cadere per primi. Dall’Austria, con la crisi Credit-Anstalt, la situazione odierna doveva avere il proprio punto di partenza. E se gli accordi presi dopo il Rapporto di Parigi hanno dato un respiro a quei paesi, mettendo una parte di essi sotto la tutela amichevole della Lega delle Nazioni, nessuna misura organica però venne presa per ridare ossigeno  a vita ad un gruppo di Stati che, insistiamo su questo punto, rappresentano per la loro situazione geografica uno dei nodi vitali per la vita e i rapporti economici dell’Europa intiera”.

Per la verità, su questa analisi, il giudizio di Keynes nella monografia del 1919 è molto più severa del Bollettino economico della Banca Commerciale Italiana. Secondo Keynes, il Trattato di Parigi rappresenta il trionfo del potere dispotico dei vincitori della prima guerra mondiale, a partire dalla Francia di Clemenceau. E afferma che Clemenceau per portare casa gli interessi della Francia ha ingoiato la costituzione della Società delle Nazioni voluta dal Presidente americano Roosvelt. Ma la Società delle Nazioni avrebbe contato ben poco.

Al termine dell’Introduzione del Bollettino economico del 1931 della Banca Commerciale Italiana troviamo la domanda cruciale che riguarda l’attuale crisi dell’Unione europea. “Quanto durerà la crisi? La domanda va rivolta agli uomini politici, non agli economisti e agli uomini d’affari”. Una cosa è certa: dagli attuali uomini politici dell’Unione europea non possiamo attenderci risposte credibili. Preghiamo Dio che ci mandi uomini politici europei in grado di darci una risposta credibile a questa domanda per un vero futuro all’Unione europea, all’altezza dei padri fondatori dell’Europa che erano dei profondi cristiani.

Giovanni Scanagatta
Professore di Politica economica e monetaria all’Università di Roma “La Sapienza”

“La Presidenza Trump e il futuro delle criptovalute” a cura di Giovanni Scanagatta

Dopo l’elezione di Donald Trump a nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, il dollaro si è notevolmente rafforzato rispetto all’euro di oltre il 5% e l’oro è sceso dalle punte che aveva toccato prima delle elezioni, con una perdita analoga.

Si conferma pertanto la relazione negativa tra il tasso di cambio del dollaro e il prezzo dell’oro, tenuto anche conto che nel frattempo la Federal reserve americana ha abbassato i tassi d’interesse di un quarto di punto percentuale. L’oro non dà cedole e quando diminuiscono i tassi di interesse tende a ridursi il suo prezzo. Ma la diminuzione del prezzo dell’oro tende anche ad indicare che c’è un’aspettativa, con la nuova presidenza, di un rientro dei rischi geopolotici e geoconomici, a a partire dalle guerre in corso. Il prezzo dell’oro, bene rifugio per eccellenza, aumenta infatti in caso di guerre, epidemie, crisi finanziarie internazionali, creazione di una nuova moneta e altri eventi straordinari (variabili entelechiane).

Mentre l’oro arretra, le criptovalute stanno mostrando delle performance eccezionali, a partire dalla più conosciuta: il Bitcoin.

La criptovaluta è una moneta particolare per la regolazione degli scambi. La moneta tradizionale si caratterizza per costi nulli di commerciabilità, certezza del valore nominale, incertezza del valore reale, certezza del reddito con rendimento nullo. La criptovaluta ha costi di transazione bassissimi, non ha la certezza del valore nominale perché il suo valore cambia, può presentare certezza del valore reale perché difende dall’inflazione come bene rifugio, analogamente all’oro, ha un rendimento in relazione al valore che cambia. Pertanto, la criptovaluta più che una moneta vera e propria è un asset il cui valore nominale muta generando guadagni e perdite. Essa pertanto può essere paragonata all’oro: l’oro dell’era digitale in cui siamo entrati.  Le criptovalute, o almeno la maggior parte di esse, sono pensate per introdurre nel sistema nuove unità di moneta, ma con dei limiti quantitativi imposti per evitare inflazione e per aumentare il loro valore. Nel caso del Bitcoin, ad esempio, l’attività di mining si interromperà quando saranno raggiunte 21 milioni di unità.

Il livello attuale dei prezzi dei Bitcoin è vicino ai 90 mila dollari per un Bitcoin, con un aumento in un anno superiore al 100%. L’esame grafico indica per il Bitcoin un livello di resistenza vicino ai 100 mila dollari e uno di supporto di circa 78 mila dollari. Ma anche le altre criptovalute stanno mostrando delle performance eccezionali, come Ethereum e Ripple, con prezzi attuali di 3084 dollari e di 0,801 dollari rispettivamente. Il livello di resistenza di Ethereum viene indicato superiore del 12% rispetto al prezzo attuale e quello di Ripple del 7%.

 Il valore in tempo reale di una valuta digitale come il valore Ethereum e il valore Ripple viene deciso dall’equilibrio fra i compratori e i venditori sugli scambi. Quando più persone comprano una moneta piuttosto che venderla, il suo prezzo cresce, e quando più persone vendono piuttosto che comprare, il suo prezzo scende. I costi di transazione sono bassissimi rispetto alle altre forme di pagamento.

Questi andamenti riflettono senz’altro la posizione più favorevole di Trump nei confronti delle cripovalute rispetto a Biden. Dal giorno delle elezioni americane, Bitcoin ha realizzato un guadagno del 35%. Alcuni sostengono che l’eccezionale performance delle criptovalute è dovuta all’idea che Trump rimuova molti ostacoli regolamentari e persino dia seguito alla promessa di costituire una riserva federale in Bitcoin. Anche se quest’ultima aspettativa appaia esagerata, non vi è dubbio che la nuova presidenza sarà molto aperta nei confronti della diffusione delle monete private decentrate come sono le cripovalute.

Il monopolio della creazione della moneta e della politica monetaria in capo ad un’unica istituzione del tutto indipendente dal governo non è desiderabile nella visione del nuovo presidente rispetto alle politiche monetarie discrezionali dell’attuale Federal reserve. Lo vedremo certamente in occasione delle mosse della Federal reserve nel prossimo anno con riferimento alla velocità di riduzione dei tassi di interesse. Per intaccare l’enorme deficit commerciale con l’estero degli Stati Uniti e per ridurre il peso per interessi del grande debito pubblico americano, Trump sarà favorevole a significative riduzioni dei tassi interesse, mentre il presidente della Federal reserve potrebbe frenare la manovra in relazione all’andamento tasso di inflazione.

La visione favorevole della nuova presidenza americana nei confronti delle criptovalute e quindi della privatizzazione della moneta riflette certamente il pensiero liberale per eliminare la discrezionalità della politica monetaria, in linea con il pensiero di Hayek, Friedman e Brunner. Il premio Nobel per l’economia, Milton Friedman, riteneva che l’offerta di moneta non dovesse dipendere dalle scelte discrezionali di una banca centrale ma dovesse crescere ad un tasso costante. Analoga posizione discende dal monetarismo fiscale di Karl Bruner, con un tasso di crescita della moneta predeterminato all’interno di una fascia di variazione.

Sul piano storico, sembrano realizzarsi i corsi e i ricorsi storici di vichiana memoria. Nel 1800 esisteva la pluralità delle banche di emissione, secondo un principio di tipo concorrenziale. Nel 1900 si passa al monopolio della creazione della moneta e della politica monetaria in capo ad un’unica istituzione: la banca centrale. Con le criptovalute si ritorna ad una visione concorrenziale, decentrata e privatistica della moneta. Attualmente le criptovalute sono più di 2 mila.

Giovanni Scanagatta
Professore di politica economica e monetaria all’Università di Roma “La Sapienza”

Roma, 19 novembre 2024

“Solo con la crescita si può ridurre il debito pubblico” a cura di Giovanni Scanagatta e Stefano Sylos Labini

L’intervento del Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta al meeting di agosto Comunione e Liberazione ha suscitato un grande interesse. Il Governatore ha sottolineato che le spese per l’istruzione sono inferiori alle spese per interessi sul debito pubblico e che quindi l’obiettivo della politica economica deve essere la riduzione dell’enorme debito che il nostro Paese ha accumulato negli ultimi decenni. Nel 2024 la spesa per interessi raggiungerà il 4% del Pil, circa 100 miliardi di euro su un debito pubblico che presto supererà la quota di 3.000 miliardi di euro.

Ineccepibile, ma come raggiungere questo obiettivo? Ci sono due strade di fronte a noi. La prima è quella di aumentare le tasse e ridurre la spesa pubblica che però rischia di far crollare il Pil e le entrate fiscali e quindi di far aumentare il rapporto debito/Pil. Olivier Blanchard, già capo economista del Fondo Monetario Internazionale, aveva riconosciuto che il moltiplicatore fiscale e cioè il rapporto tra tagli al deficit e diminuzione della crescita, è molto più alto di quanto si pensasse sconfessando le politiche di austerità per ridurre il debito pubblico. Ma il nuovo Patto di Stabilità imporrà alla maggior parte degli Stati dell’eurozona un pesante percorso di aggiustamento dei conti pubblici deprimendo la crescita dell’economia. La recente affermazione dell’estrema destra tedesca nasce proprio dalla crisi economica che sta colpendo la Germania.

La seconda strada è quella di puntare sulla crescita proprio per ridurre il rapporto debito/Pil visto che la diminuzione del debito in termini assoluti con tassi d’interesse mediamente elevati è un obiettivo molto difficile da conseguire. Oggi in Italia i dati sulla crescita non sono affatto incoraggianti: dal 2024 il Pil è in sostanziale stagnazione, la produzione industriale sta diminuendo dal secondo trimestre del 2022 e l’apporto del PNRR non ha ancora prodotto una spinta consistente sulla nostra economia. Le dichiarazioni del Ministro dell’Economia al riguardo hanno suscitato notevoli preoccupazioni: Giorgetti ha evocato i piani quinquennali di sviluppo dell’Unione Sovietica per indicare che i vincoli burocratici associati alla spesa di questi fondi ne stanno depotenziando l’impatto. A ciò si aggiunge che non siamo mai stati capaci di spendere i soldi europei in modo rapido ed efficiente, che si tratta pur sempre di un debito e che la parte più consistente dei fondi finora spesi – circa 30 miliardi di euro su 50 – sono legati ai crediti d’imposta per l’industria e per l’edilizia e cioè alle decisioni d’investimento delle imprese.

In questo quadro bisognerebbe ripensare ai crediti fiscali trasferibili che sono uno strumento molto potente per finanziare l’economia ma che purtroppo nel triennio 2021/23 sono stati gestiti in modo assai discutibile dai governi che si sono succeduti. Ci sono due linee d’azione che potrebbero essere perseguite a costo zero. La prima è quella di rendere trasferibili i crediti d’imposta previsti per il piano Industria 5.0. In questo modo le imprese potrebbero disporre di liquidità immediata sfruttando lo sconto in fattura e monetizzando i crediti mentre per lo Stato l’impatto sul bilancio pubblico non cambierebbe: le minori entrate si avranno quando gli sconti fiscali saranno esercitati per pagare meno tasse. La seconda è quella di favorire la circolazione e la monetizzazione dei crediti fiscali fin qui emessi nel settore edilizio, che sono bloccati nei cassetti fiscali dei committenti e delle imprese e che stanno provocando crisi di liquidità, blocco dei cantieri, fallimenti e cassa integrazione.

Il compito del governo dovrebbe essere quello di ripristinare la fiducia su questo strumento garantendo un mercato di scambio fluido ed efficiente con degli acquirenti sicuri come la Cassa Depositi e Prestiti e le imprese partecipate dallo Stato (ENI, ENEL, ecc.) che pagano decine di miliardi di euro di tasse e contributi ogni anno.

La futura riduzione dei tassi d’interesse della Banca Centrale Europea può dare una boccata d’ossigeno alla nostra economia sebbene le decisioni della BCE siano lente di fronte alla gravità della situazione; mentre il progetto di Europa federale invocato da Mario Draghi con investimenti pubblici centralizzati e debito comune incontra l’ostilità della Germania e degli altri paesi nordici e richiederebbe una governance sul modello americano con un Presidente degli Stati Uniti d’Europa, un ministro del Tesoro e così via.

Per concludere, se non rimettiamo in moto la crescita dell’economia, il peso del debito sul Pil sarà destinato ad aumentare aggravando una situazione già molto complicata.

Giovanni Scanagatta, Professore di Politica economica e monetaria all’Università “La Sapienza” di Roma

Stefano Sylos Labini, Gruppo Moneta Fiscale

 

Roma, 23 settembre 2024