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Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco a confronto con la DSC

Mettiamo a disposizione qui di seguito l’intervento del segretario generale Ucid Giovanni Scanagatta in occasione dell’ultimo incontro del comitato tecnico scientifico Ucid lo scorso 25 febbraio.

Ringrazio il Professor Angelo Ferro, Presidente del Comitato Tecnico Scientifico, per la fiducia che ha voluto manifestarmi come relatore a questa prima Sessione del 2015 sul tema “Giovanni Paolo II: la forza della Fede”. E’ nota, a questo riguardo, l’esortazione piena di Fede di Giovanni Paolo II: “Non abbiate paura, aprite, anzi, spalancate, le porte a Cristo!” Un ringraziamento particolare al Cardinale Angelo Comastri, Vicario Generale
di Sua Santità per la Città del Vaticano, che ci onora con la Sua presenza come relatore a questo nostro incontro, e un cordiale saluto a tutti gli amici dell’Ucid.
Giovanni Paolo II è stato un grande Maestro di Dottrina Sociale della Chiesa. Il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, pubblicato nel 2004, è a lui dedicato. Ci ha donato tre grandi encicliche sociali: la Laborem exercens del 1981, la Sollicitudo rei socialis del 1987, la Centesimus annus del 1991.  Con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI la Dottrina Sociale della Chiesa riceve una vera e propria svolta. Giovanni Paolo II cambia la posizione nei confronti dei Paesi dell’Est e dell’Unione Sovietica, condannando la mancanza della libera iniziativa e la pretesa di rendere tutti uguali che invece appiattisce e mortifica qualsiasi tipo di creatività dell’uomo. Lo strapotere della burocrazia soffoca qualsiasi libera iniziativa umana e le libere aggregazioni delle persone per lo sviluppo e il bene comune. Tale condanna appare del tutto evidente nella Sollicitudo rei socialis del 1987 che si estende anche alla teologia della liberazione. Il muro di Berlino cade due anni dopo e l’implosione dell’Unione Sovietica avviene nel 1991, in coincidenza con l’uscita della Centesimus annus. Giovanni Paolo II afferma l’economia d’impresa come fattore fondamentale dello sviluppo e della costruzione del bene comune, preferendola
alla definizione dell’economia di mercato e di quella capitalistica. I tre pilastri di una società in sviluppo sono lo Stato, il mercato e la comunità civile. Il terzo pilastro è fondamentale per un vero sviluppo perché lo Stato e il mercato da soli non bastano. Sarà questo un concetto che viene ripreso da Benedetto XVI nella Caritas in veritate con l’importanza dell’economia della gratuità e del dono per assicurare lo sviluppo umano integrale. Nella Centesimus Annus si afferma la legittimità del profitto d’impresa, con la condizione del rispetto della centralità dell’uomo nei processi di sviluppo con i suoi valori di libertà, responsabilità, dignità, creatività. Se l’azienda fa profitti, dice la Centesimus Annus, vuol dire che i fattori della produzione sono impiegati bene. Benedetto
XXI con la Caritas in veritate potenzia il pensiero del suo predecessore parlando di vocazione allo sviluppo per il bene comune, esaltando la dimensione trascendente e teologica della Dottrina Sociale della Chiesa.
Vengono nominati l’imprenditore, l’impresa e l’imprenditorialità una cinquantina di volte, rispetto alla metà della Centesimus annus. Forte appare la consonanza tra la Caritas in veritate e la Sollicitudo rei socials di Giovanni Paolo II.
Benedetto XVI nella Caritas in veritate compie un’analisi molto acuta della crisi iniziata nel 2007, evidenziando i gravi danni provocati dalla finanziarizzazione dell’economia mondiale e dalla ricerca spasmodica del
profitto nel brevissimo periodo all’interno dell’industria finanziaria. In questo mondo la finanza ha la pretesa di essere il cervello dell’economia, governando ogni tipo di attività economica. Essa non costituisce più, come dovrebbe
essere, il ponte tra il presente e il futuro a sostegno dei processi di sviluppo. E’ il denaro che governa invece di servire, come afferma con preoccupazione Papa Francesco nella Evangelii Gaudium. Il pensiero di Benedetto XVI ci fa da guida all’individuazione e alla specificazione di un nuovo modello di sviluppo per i paesi poveri fondato sull’agricoltura.
Dobbiamo per questo ricordare le illuminanti parole di Benedetto XVI che troviamo nella Caritas in veritate del 2009 e in un intervento di fine 2010. “La crisi economica in atto, di cui si è trattato anche in questi giorni nella riunione del cosiddetto G20, va presa in tutta la sua serietà: essa ha numerose cause e manda un forte richiamo ad una revisione profonda del modello di sviluppo economico globale” (Caritas in veritate, 21). E nel discorso del novembre del 2010: “E’ un sintomo acuto che si è aggiunto ad altri ben più gravi e già ben conosciuti, quali il perdurare dello squilibrio tra ricchezza e povertà, lo scandalo della fame, l’emergenza ecologica e, ormai anch’esso generale, il problema della disoccupazione. In questo quadro, appare decisivo un rilancio strategico dell’agricoltura. Infatti, il processo di industrializzazione talvolta ha messo in ombra il settore agricolo, che, pur traendo a sua volta beneficio dalle conoscenze e dalle tecniche moderne, ha comunque perso di importanza, con notevoli conseguenze anche sul piano culturale. Ma ritorniamo alla prima enciclica sociale di Giovanni Paolo II del 1981: la Laborem exercens. Va subito sottolineato, sul piano generale, l’importante distinzione che Giovanni Paolo II fa in questa enciclica tra lavoro in senso oggettivo e lavoro in senso soggettivo. Il primo concetto appartiene alla sfera
della tecnica e dell’economia. Il secondo invece, che sta molto a cuore a Giovanni Paolo II, guarda al lavoratore come persona umana, fatta a immagine e somiglianza di Dio, con i suoi inalienabili valori di libertà e responsabilità.
Va poi ricordato il monito riguardante i gravi rischi dell’economicismo, cioè ridurre tutto alla sfera economica, dimenticando tutti gli altri grandi valori morali e spirituali dell’uomo. Non si può spiegare l’economia con la sola
economia perché anche i valori spirituali hanno importanti conseguenze economiche.

Come si legge nella Centesimus annus, i gravi problemi ecologici richiedono un effettivo cambiamento di mentalità che induca ad adottare nuovi stili di vita. Tali stili di vita devono essere ispirati alla sobrietà, alla temperanza,
all’autodisciplina, sul piano personale e sociale. Bisogna uscire dalla logica del mero consumo e promuovere forme di produzione agricola e industriale che rispettino l’ordine della creazione e la salvaguardia del creato, e soddisfino i
bisogni primari di tutti. E’ interessante ricordare a questo proposito, che quast’anno uscirà la prima
enciclica sociale di Papa Francesco dedicata all’ecologia, all’ambiente e alla salvaguardia del creato. Un simile atteggiamento, favorito da una rinnovata consapevolezza dell’interdipendenza che lega tra loro tutti gli abitanti della
terra, concorre ad eliminare diverse cause di disastri ecologici e garantisce una tempestiva capacità di risposta quando tali disastri colpiscono popoli e territori.
La questione ecologica non deve essere affrontata solo per le agghiaccianti prospettive che il degrado ambientale profila: essa deve tradursi, soprattutto, in una forte motivazione per un’autentica solidarietà a dimensione mondiale.
Nell’insegnamento sociale di Giovanni Paolo II, gli scienziati e i tecnici impegnati nel settore delle biotecnologie sono chiamati a lavorare con intelligenza e perseveranza nella ricerca delle migliori soluzioni per i gravi e
urgenti problemi dell’alimentazione e della sanità. Essi non devono dimenticare che le loro attività riguardano materiali, viventi e non, appartenenti all’umanità come un patrimonio, destinato anche alle generazioni future. Per i
credenti si tratta di un dono ricevuto dal Creatore, affidato all’intelligenza e alla libertà umane, anch’esse dono dell’Altissimo. Sappiano gli scienziati impegnare le loro energie e le loro capacità in una ricerca appassionata, guidata da una coscienza limpida e onesta. Gli imprenditori e i responsabili degli enti pubblici che si occupano della
ricerca, della produzione e del commercio dei prodotti derivati dalle nuove  biotecnologie devono tener conto non solo del legittimo profitto, ma anche del bene comune. Questo principio, valido per ogni tipo di attività economica,
diventa particolarmente importante quando si tratta di attività che hanno a che fare con l’alimentazione, la medicina, la custodia della salute e dell’ambiente. Con le loro decisioni, imprenditori e responsabili degli enti pubblici interessati possono orientare gli sviluppi nel settore delle biotecnologie verso traguardi molto promettenti per quanto riguarda la lotta contro la fame, specialmente nei Paesi più poveri, la lotta contro le malattie e la lotta per la salvaguardia dell’ecosistema, patrimonio di tutti.

Cambiano le forme storiche in cui si esprime il lavoro umano, ma non devono cambiare le sue esigenze permanenti che si riassumono nel rispetto dei diritti inalienabili dell’uomo che lavora. Questa prospettiva consente di orientare al meglio le attuali trasformazioni nella direzione, tanto necessaria, della complementarità tra la dimensione economica locale e quella globale; tra economia vecchia e nuova; tra l’innovazione tecnologica e l’esigenza di
salvaguardare il lavoro umano; tra la crescita economica e la compatibilità ambientale dello sviluppo (Centesimus annus).

L’impresa deve essere una comunità solidale di persone non chiusa negli interessi corporativi, tendere ad un’ecologia sociale del lavoro, e contribuire al bene comune anche mediante la salvaguardia dell’ambiente (Centesimus
annus). L’utilizzo del proprio potere d’acquisto va esercitato nel contesto delle esigenze morali della giustizia e della solidarietà e di precise responsabilità sociali. Tale responsabilità dà ai consumatori la possibilità di indirizzare,
grazie alla maggiore circolazione delle informazioni attraverso internet, il comportamento dei produttori, mediante la decisione di preferire i prodotti di alcune imprese anziché di altre. Si pensi alle corrette condizioni di lavoro nelle
imprese, all’attività lavorativa in modo da favorire la famiglia e le madri di famiglia, nonché del grado di tutela assicurato per l’ambiente naturale (Laborem exercens e Centesimus annus).

Si tratta di principi che verranno successivamente sviluppati da Benedetto XVI nella Caritas in veritate, dove si parla non solo di Responsabilità Sociale dell’Impresa, ma anche di Responsabilità Sociale del Consumatore.
Giovanni Paolo II ci insegna che l’umanità di oggi, se riuscirà a congiungere le nuove capacità scientifiche con una forte dimensione etica, sarà certamente in  grado di promuovere l’ambiente come casa e come risorsa a favore dell’uomo e di tutti gli uomini, sarà in grado di eliminare i fattori di inquinamento, di assicurare condizioni di igiene e di salute adeguate per piccoli gruppi come per vasti insediamenti umani.

La tecnologia che inquina può anche disinquinare, la produzione che accumula può distribuire equamente, a condizione che prevalga l’etica del rispetto per la vita e la dignità dell’uomo, per i diritti delle generazioni umane presenti e di quelle che verranno.

Il contenuto giuridico del diritto ad un ambiente sano e sicuro sarà il frutto di una graduale elaborazione, sollecitata dalla preoccupazione del’opinione pubblica di disciplinare l’uso dei beni del creato secondo le esigenze del bene
comune e in una comune volontà di introdurre sanzioni per coloro che inquinano.
Le norme giuridiche, tuttavia, da sole non bastano; accanto ad esse devono maturare un forte senso di responsabilità nonché un effettivo cambiamento di mentalità e negli stili di vita.

Il clima è un bene che va protetto e richiede che, nei loro comportamenti, i consumatori e gli operatori di attività industriali sviluppino un maggiore senso di responsabilità (Sollicitudo rei socialis). Si tratta, in definitiva, della
relazione inversa tra sostenibilità economica e sostenibilità ambientale. Questo trade-off negativo può essere risolto con il progresso scientifico e tecnico che, dato un livello desiderato di sostenibilità economica, può consentire dei
miglioramenti anche forti della sostenibilità ambientale.

Sul settimanale L’Espresso del 25 dicembre scorso è apparso un articolo di Sandro Magister intitolato “Cosa pensa Papa Francesco del capitalismo?” Mi propongo, in questa ultima parte del mio intervento, di offrire alcune
considerazioni critiche sul delicato tema perché penso che l’Ucid, come Unione Cristiana di Imprenditori e Dirigenti, lo debba affrontare. La prima riflessione fa riferimento alla cerimonia di consegna del premio
“Novak Award 2014” dell’Acton Institute che si è svolta a Roma nello scorso mese di dicembre presso l’Università Pontificia della Santa Croce. Il premio è stato conferito ad un giovane economista finlandese che ha tenuto una
conferenza sul tema “Un apprezzamento pro mercato di Papa Francesco”. Dopo la conferenza, è seguito un intenso dibattito a cui ha partecipato il  sottoscritto, evidenziando la problematicità di collocare il pensiero sociale di
Papa Francesco dal lato del mercato e quindi della produzione di ricchezza. Il mercato è una grande macchina per la produzione della ricchezza, ma crea grossi problemi sul piano della distribuzione perché si determinano di fatto
grandi disuguaglianze che rendono il mondo ingiusto e senza pace. Ci deve allora pensare lo Stato, dice il mainstream, a ridistribuire la ricchezza creata attraverso la tassazione e la spesa, realizzando la giustizia e il benessere generale. In questa visione, lo Stato è l’unico costruttore di bene comune (Welfare State), sacrificando il valore della sussidiarietà che è uno dei pilastri fondamentali della Dottrina Sociale della Chiesa.

Con Papa Francesco, si assiste ad una differente e fondamentale prospettiva della Dottrina Sociale della Chiesa perché ci si pone dal lato della distribuzione della ricchezza per creare un mondo più giusto sconfiggendo le disuguaglianze. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI con le loro encicliche sociali si ponevano invece più dal lato della produzione della ricchezza, mettendo in grande rilievo il ruolo dell’economia d’impresa come via per lo sviluppo e la costruzione del bene comune. Il valore della libertà di intraprendere per creare sviluppo per il bene comune è molto presente, come si è già detto, nella Centesimus annus, nella Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II e nella Caritas in veritate di Bendetto XVI.
La forza del pensiero sociale di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI sta naturalmente nel fatto che non si può distribuire ricchezza se prima non la si crea. Emerge qui un principio fondamentale della Dottrina Sociale della Chiesa che è quello dello sviluppo, contrapponendosi alla teoria della decrescita felice di Serge Latouche e dei suoi seguaci. Gli altri grandi valori della Dottrina Sociale della Chiesa sono la solidarietà, la sussidiarietà, la destinazione
universale dei beni, il bene comune.
Facendo un parallelo con la scienza economica, si può dire che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sono vicini al pensiero di Adamo Smith della natura e delle cause della ricchezza (non della povertà) delle nazioni. Papa Francesco si pone invece più dal lato del pensiero di Davide Ricardo, che afferma che lo scopo fondamentale della scienza economica è lo studio delle cause che determinano la distribuzione del reddito tra i fattori della produzione. Si aprono quindi i grandi temi delle teorie del valore e della distribuzione. Ci imbattiamo qui nella scienza economica nella teoria del valore lavoro e nella teoria marginalista. Seguendo la prima, si afferma che la distribuzione effettiva è
ingiusta perché tutto il valore creato dovrebbe andare al lavoro, mentre per la seconda è giusta in quanto a ciascuno viene dato quello che ha contribuito a creare in termini produttivi (uguaglianza tra produttività marginale del lavoro e salario reale).

Rimane il fatto che il pensiero di Papa Francesco si colloca più dal lato della distribuzione della ricchezza, basandosi sull’osservazione concreta delle grandi disuguaglianze che esistono a livello mondiale e dello scandalo della povertà e
della fame. Egli per questo nella Evangelii gaudium dice no all’economia dell’esclusione, no all’idolatria del denaro, no al denaro che governa invece di servire, no all’ inequità che genera violenza. Nel punto 59 della Evangelii
gaudium si legge: “Ma fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni povere, ma, senza
uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione”. Ma al termine del punto 59, Papa Francesco apre allo sviluppo per il superamento
delle disuguaglianze: “Siamo lontani dalla cosiddetta “fine della storia”, giacchè le condizioni di uno sviluppo sostenibile e pacifico non sono ancora adeguatamente impiantate e realizzate”. Papa Francesco, in questo modo,
lascia intendere che queste condizioni si possono raggiungere se ci facciamo illuminare dal Vangelo.Il capitolo quarto della Evangelii gaudium è infatti dedicato alla dimensione sociale dell’evangelizzazione.

La seconda riflessione riguarda l’affermazione del giornalista Sandro Magister, che mi sembra campata per aria, relativa alla consonanza del pensiero di Papa Francesco con quello del filosofo Toni Negri. Viene interpretato male il punto della Evangelii gaudium in cui Papa Francesco dice no ad un denaro che governa invece di servire. Papa Francesco vuole dire che dobbiamo tornare ad un denaro e ad una finanza di “servizio”, facendo ponte
tra il presente e il futuro, a sostegno di uno sviluppo sostenibile e pacifico per la costruzione del bene comune. Per concludere, il grande pensiero sociale di Giovanni Paolo II, incardinato nella forza della Fede, ci fa capire che Stato (ridistribuzione della ricchezza) e Mercato (creazione della ricchezza) sono insufficienti per la costruzione del
bene comune. Occorre un terzo pilastro che è rappresentato dalla comunità civile, facendo leva sui valori della gratuità e del dono.

 

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