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Popolazione e Sviluppo, fra ideologie e pragmatismo.

Nell’ambito dell’incontro organizzato da UCID Padova con il Festival Biblico POPOLAZIONE E SVILUPPO: TRA TEMPI APOCALITTICI E APERTURA A TEMPI NUOVI. Intrecci di socialità, contesti e geografie umane (domenica 29 maggio, Villa Pacchierotti-Limena), una riflessione del Presidente Massimo D’Onofrio:

Popolazione e Sviluppo, fra ideologie e pragmatismo.

Mai come in questo momento assistiamo ad un proliferare di pubblicazioni (libri, articoli, dotti studi,…) che testimoniano il ritrovato interesse per il tema dell’andamento della Popolazione. Che possiamo anche meglio identificare con la tendenza alla denatalità ormai consolidata da serie statistiche impietose e convergenti. Rapidamente cerchiamo di capirne il perché, vedremo poi che danni ha procurato e che ancora ci farà, cercheremo infine di capire se esiste una maniera di mitigare la situazione.

Sulle motivazioni che hanno indotto gli italiani a non fare più figli, sono state identificate e studiate infinite variabili; per semplicità le raggruppiamo in tre macro categorie: economiche, sociologiche, politiche. Un mix di salari insufficienti, precarietà del lavoro, mancanza di sostegno alle famiglie, una scuola dell’obbligo disegnata a dispetto e non in funzione della società, una politica che da atteso attore protagonista si è limitato a redigere contabilità accurate senza azioni significative di contrasto. Dobbiamo riconoscere che il fenomeno ha interessato anche altri Paesi dell’area Occidentale e non solo. Ma è in Italia che abbiamo un tasso di sostituzione (o di rimpiazzo: il numero minimo di figli per donna fertile che permette di mantenere in equilibrio la popolazione) che dal 2,1 necessario è oggi al 1,29, ultimi in Europa. Purtroppo, non facciamo eccezione in Veneto (1,32) dove registriamo, nel periodo 2015-2020 (Istat), un costante saldo annuale negativo. E Padova? Le statistiche di Palazzo Moroni del 2021 ci dicono che la città conta oggi 208.702 residenti, la cifra più bassa dal 1963; eravamo 214.198 nel 2010, 242.186 nel 1976.

Le conseguenze. Tutto fa perno sulla quota di anziani che pesa sempre più nella composizione della popolazione; oggi gli over 65 sono al 23,6%. Senza alcuna pretesa di esaustività né di attribuzione di criteri di priorità, possiamo trovare che è a rischio la sostenibilità previdenziale (chi paga le pensioni di domani?); aumenta la spesa assistenziale/sanitaria; si contrae la capacità di risparmio, quella di fare impresa e la propensione al rischio; si riduce il tasso di innovazione/produttività; si contraggono redditi/consumi personali ed il Pil del Paese…Potremmo continuare ma qui l’obiettivo è di dare il senso del rischio di decadenza legato alla denatalità; con l’avvertenza che non è il solo rischio da cui guardarsi e che andrebbe gestito con una visione più ampia tenendo conto di altre variabili che stanno rapidamente modificando lo scenario globale in cui siamo immersi.

Il ruolo dell’immigrazione. Il fenomeno migratorio potrebbe integrarsi nell’esercizio di quadrare il problema della denatalità. Ci sono due modi per poter approcciare il tema: quello etico e quello pragmatico dei numeri. Sinora il confronto socio-politico è stato in preminenza sul terreno etico: chi sosteneva la necessità di accoglienza riferendosi ai valori tradizionali di solidarietà e condivisione, si scontrava con chi ci vedeva un potenziale fattore di impoverimento economico e culturale del Paese; materia divisiva che ha tenuto banco per molti anni. Oggi le cose sembrano evolvere. Il tutto ruota attorno alla disponibilità di manodopera per sostenere l’impresa italiana. Cosa è successo: già partivamo da modelli culturali che hanno fatto fare agli italiani scelte molto selettive; in particolare i giovani sembrano non cercare più un lavoro ma vogliono quello che rispecchia i loro desiderata; inoltre si sta imponendo anche in Italia e nel Veneto, il fenomeno dell’abbandono volontario del posto di lavoro alla ricerca di nuovi equilibri (fenomeno importato rapidamente dagli Stati Uniti). In sintesi: in Italia, dove abbiamo un tasso di disoccupazione del 8,3% (Istat, febbraio 2022), non riusciamo a trovare 350.000 lavoratori da inserire in quelle attività che potrebbero aiutarci ad allontanare il rischio recessione. Questo stato dell’arte ha suggerito, persino ai più oltranzisti nel negare qualsiasi tipo di accoglienza, di farsi promotori di maggiore flessibilità legislativa per occupare foresti. E’ un’occasione unica: senza rinunciare alle motivazioni etiche, abbiamo una convergenza di programma che può finalmente far cadere alcune barriere. Cogliamo l’attimo.

 

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