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PENSIERI IN LIBERTA’ SUL NATALE

PENSIERI  IN LIBERTA’ SUL NATALE

a cura del Consulente Ecclesiastico UCID Padova don Alberto Giacomello

Heinrich Heine (1797-1856), forse il più grande lirico tedesco dopo la generazione di Goethe, contemporaneo di leopardi, ebreo di origine ma battezzato forse senza troppo credere nella fede cristiana in un componimento dal titolo Quesiti scriveva:

Sulla riva del mare

Deserto notturno,

sta un uomo. L’eterno fanciullo

dal petto ricolmo d’ambascia,

dal cuore gravato di dubbi,

con lugubre voce,

interroga i flutti così:

“O flutti, scioglietemi voi

l’enigma crudele antichissimo, che nomasi Vita;

l’enigma pe’l quale da secoli,

invano il cervello si crucciano

dei tristi mortali

le tempie recinte di mitrie istoriate,

di nere berrette, turbanti e parrucche:

l’enigma, sul quale,grondano sudore, si curvano a mille,

da secoli, ansiose le fronti mortali!

O flutti, svelatemi voi l’essenza dell’uomo!

Onde viene? A qual mèta s’affanna?

O flutti, chi popola i mondi che brillano d’oro nel cielo?”.

Il mare bisbiglia la sua sempiterna canzone;

fischia il vento; le nuvole corrono;

inesorabili e fredde, le stelle sull’arco del cielo risplendono,

e un folle attende il responso del mare.

 

La lirica scandisce il destino dell’uomo, tormentato dalle domande radicali e condannato al buio del mistero. Chi è l’uomo? Donde viene? Dove va? Ha un senso la vita? Con l’animo “ricolmo d’ambascia”, “gravato di dubbi” e la “voce lugubre” invoca una risposta. Ma invano. Le onde si sbriciolano, bisbigliando una sempiterna indecifrabile canzone, il vento fischia, le nuvole corrono, le stelle risplendono, mute. Tutto rivela estraneità e indifferenza all’angoscia dell’uomo. A questo mutismo egli non sa rassegnarsi. Persiste nell’attesa di una risposta.

Versi desolati e duri.

A queste immagini di Heine potete associare i versi del pastore errante del Leopardi. L’uno interroga le onde, l’altro la luna.

A questa angoscia di solitudine e di buio risponde Isaia:

“Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti” Is 63,19 o Marco nel vangelo che abbiamo proclamato domenica scorsa in tutte le chiese del mondo: “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio” Mc 1,1.

Le domande di Haine e di Leopardi hanno avuto una risposta. A Natale ricordiamo o se preferisci annunciamo la venuta di Dio sulla terra e la conseguente rivelazione del nostro destino. Dio c’è. È venuto, è vissuto, ed è rimasto per condividere la condizione umana, rispondere alle nostre domande, rompere la nostra solitudine, comunicarci la sua divinità.

L’incarnazione del Verbo di Dio è il cuore della fede cristiana. Essa ci dice che Dio non è l’essere sperduto nei cieli, lontano dall’uomo e sordo alle sue invocazioni.

È l’Emmanuele, il Dio-con-noi, che ha posto la sua tenda tra noi, pronto a spostarla e porla dove noi ci stabiliamo. In tale prospettiva la solitudine è superata, poiché il Verbo fatto carne, si è fatto nostro compagno di viaggio. Non occorre più cercare Dio in cielo, perché ci è accanto, sperimenta la nostra fatica di pellegrini, la fame, la sete, la stanchezza, l’ostilità, e anche l’angoscia della morte. Papa Benedetto XVI commentando l’affermazione di Gesù: “Io sono la vite e voi i tralci” Gv 15,5, scrive: “Giovanni non conosce l’immagine paolina del “corpo di Cristo”. La parabola della vite tuttavia, esprime oggettivamente il medesimo concetto: l’inseparabilità di Gesù dai suoi, il loro essere una sola cosa con Lui e in Lui. Il discorso della vite dimostra così l’irrevocabilità del dono fatto da Dio, che non verrà tolto. Nell’incarnazione Dio ha legato sé stesso”.

A quale mèta s’affanna l’uomo? Nella luce dell’Incarnazione la domanda di Heine, ha una risposta sorprendente: la mèta dell’uomo è la stessa del Cristo, nel quale egli vive. Cristo è vissuto per realizzare la gloria di Dio, cioè vivificare l’umanità nell’amore del Padre, comunicandole in tal modo la vita e la felicità divina. L’uomo avverte un bisogno insopprimibile di felicità, esiste per essere felice. Il mistero del Natale rende possibile raggiungere Dio e la felicità nella sua pienezza.

Ed io chi sono? Si chiede Leopardi. La sua risposta è desolante, viandante smarrito e lacerato, preda della noia. L’ultimo verso del suo Canto notturno sa di pietra tombale: Forse…è funesto a chi nasce il dì Natale.

Sartre si sarebbe chiesto se “l’uomo è un condannato a portare il proprio cadavere? Vari filoni della cultura di oggi guardano all’uomo con disprezzo, con sterile pietà, con disgusto:

“Passione inutile” – Sartre

“Straniero per la polizia, per Dio, per me stesso” – Cioran

“Grazioso granellino di polvere sperduto nell’universo” – Buzzati

“Crudele, sanguinaria scimmia predatrice che si chiama uomo” – Durrenmatt

“Statuette di terracotta esposte all’aperto che con la pioggia si trasformeranno in fango” – Saramago.

L’evento del Natale ribalta queste desolate definizioni e fa vedere l’uomo su uno sfondo di dignità, di valore, di immortalità. Paolo VI in un memorabile messaggio nel Natale 1968 diceva: “Da allora molte cose hanno avuto principio. Da allora, per il fatto d’una tale nascita (cfr. Col. 1, 15) la dignità della natura umana è stata riabilitata ed esaltata. Da allora l’unità potenziale del genere umano è diventata manifesta. Da allora la storia del mondo ha avuto il suo punto focale. Da allora un principio di fratellanza universale è stato proclamato (cfr. Rom. 8, 29). Da allora ogni essere umano è diventato sacro, degno di ogni cura, d’ogni rispetto. Da allora s’è inaugurato il criterio che chi soffre, chi è piccolo, chi è povero, chi è schiavo, chi è decaduto merita cura, soccorso, rispetto, e merita maggiore giustizia. Da allora la disperazione, ch’è in fondo all’anima dell’uomo deluso e peccatore, ha avuto titolo a sperare, a rivivere. Da allora una sorgente, ch’è diventata fiume, e di cui la Chiesa vuol essere il canale principale e autentico, un fiume refrigerante, fecondante, rigenerante, è scaturita a Bethleem: l’amore; l’amore nuovo, inconcepibile e incontenibile di Dio, di Dio fattosi nostro fratello e nostro modello, nostro maestro, nostro amico, nostro salvatore e redentore, nostro capo e nostra vita, s’è riversato sulla terra, e ancora la inonda, e qui oggi fa lago, e tutti ci invade, l’amore del Natale, l’amore di Cristo”.

A Natale si definisce la sacralità e la dignità dell’uomo e di ogni uomo, il rispetto e la giustizia che gli si devono; Natale definisce anche le basi su cui costruire la “nuova città”. Pertanto, ogni dottrina sociale della Chiesa è impastata dell’orizzonte del Natale, è innestata in questa “antropologia” di fondo.

Le sfide oggi sono innumerevoli e complesse: si è appena conclusa la conferenza di Dubai “Cop28” dove sembrano più le incognite che le soluzioni; ci preoccupano i fronti di guerra medio orientali e la guerra in Ucraina, senza dimenticare (Siria, Libia, Sud Sudan; Yemen), i movimenti di popoli dal sud del mondo, la denatalità nei paesi più evoluti (se ancora si può usare questa terminologia), gli sviluppi della tecnologia e in particolare dell’ IA con tutte le sue incognite etiche, l’ONU che ormai da decenni è più un problema che una soluzione,  e non ultimo gli stati BRICS (Brasile-Russia-India-Cina-SudAfrica) che ormai vengono sempre più considerati alternativi a quell’ordine mondiale che ha dominato dopo la seconda guerra mondiale e che secondo il Fondo Monetario Internazionale sembra che già quest’anno 2023 li vedrà superare la produzione economica degli stati del G7.

In tempi di crisi si fa esperienza della fatica, dell’incertezza, della precarietà. Tuttavia, proprio questi momenti possono diventare tempi di riflessione su ciò che è veramente importante nella nostra vita: gli affetti, l’impegno nella solidarietà, una ascesi che fa valutare meglio il valore dei beni materiali nella prospettiva dei beni eterni e del rapporto con Dio. San Paolo quando scrive ai Romani dice: “le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi” e continua “tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi” l’immagine del parto ci induce a vedere il mondo in tensione continua di attesa Rm 8,18-25.

Il Natale per il credente non è un effimero momento di consolazione e di respiro in un mare in tempesta, ma il faro sicuro di approdo di pace e di giustizia, la certezza che nella lotta che il quotidiano ci chiede siamo sempre nelle mani della forza della vita. Certo la contraddizione tra la “potenza di Dio” e la debolezza del bambino di Betlemme è enorme e l’inquietante domanda resta, veramente quel bambino è figlio di Dio?

Celebrare il Natale in maniera paganamente distaccata, considerarlo una pia leggenda, farcita di buoni sentimenti, di folclore e di “modi di dire”; significa sganciarsi dalla rivelazione e dalla redenzione, Dio si fa bambino non per trastullarsi, per giocare e strappare un po’ di commozione ai benpensanti, ma per rivelarci che il trono di Dio nel mondo non è nei troni umani, ma nelle profondità dell’uomo. Attorno alla mangiatoia di Betlemme non vi sono i grandi del tempo, ma personaggi semplici, oscuri, sconosciuti, personaggi che si giocano l’esistenza non attraverso il potere ma attraverso la coscienza, e un leale esame di coscienza. Alla luce della mangiatoia abbiamo il dovere di chiederci che cosa è alto e cosa è basso nella vita umana? Abbiamo lo stesso criterio del Signore nel formulare un giudizio in merito? Ognuno di noi vive con persone che diciamo “altolocate” e con persone che diciamo di basso rango. Ognuno di noi ha sempre qualcuno che sta più in basso di lui, come ci collochiamo a riguardo? Il Natale, annunciare che Dio è nato uomo in Gesù di Nazareth significa cominciare a guardare l’umanità in orizzontale, con una prospettiva di certa speranza e con una forte responsabilità nei confronti dell’umanità. Speranza e Responsabilità è il binomio che ci interpella in quella buia grotta di Betlemme dove splende una luce eterna.

Buon Natale a tutti membri U.C.I.D.

Padova 14 dicembre 2023                                                       don Alberto Giacomello

 

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