Il mondo (globalizzato) è piccolo. Eppure va capito.
Di Stefano Termanini Socio Ucid Genova
Bandi. Ce ne sono di ogni genere e, di anno in anno, diventano più numerosi. Contro un certo tipo di plastica. Contro certi carburanti e le macchine che ne fanno uso. Contro prodotti dell’industria alimentare che si scoprono dannosi. Contro farmaci che, invece di guarire, fanno ammalare. Credo, però, almeno per parte mia, che dovremmo mettere al bando – al bando sopra ogni altro bando – il luogo comune. Sarà l’eccesso di informazioni, sarà la stanchezza cronica o la corsa contro il tempo: non ha importanza. Il fatto è che stiamo diventando mentalmente pigri. Sempre più pigri. E che la pigrizia ci porta a far nostri i luoghi comuni, senza altre domande.
Così, per esempio, quando si parla di immigrazione, di emigrazione, di Africa, di Europa. Se si entra in una stanza in cui si discutono questi argomenti, tutti sembrano egualmente esperti. Tutti politologi, geopolitici, storici del costume; tutti esperti di qualcosa, secondo le tendenze e i costumi. Penso a questo quando dico: bando al luogo comune! Poniamoci davanti ai fenomeni, alle cose, così come sono e così come avvengono, sgombriamo il campo dai pregiudizi e vediamo se sia possibile capirci qualcosa. Aggiungo: capirci davvero qualcosa, per essere certi della direzione da intraprendere per agire.
L’Africa. Se ne parla molto. La si comprende troppo poco. È l’Africa, con tutto ciò che vi convive e vi si innesta, uno di questi temi, anzi uno di quei temi in cui, più che per altri, il luogo comune imperversa. Tutti sanno chi siano e come arrivino in Europa i migranti o, almeno, tutti manifestano di avere a riguardo idee chiare. Tutti sanno – o credono di sapere – dove si stia andando e che cosa si debba fare. Il luogo comune si occupa dell’Africa da tanto tempo.
Dovremmo, invece, rivestirci di socratica umiltà e andare in giro a vedere e a chiedere e metterci a studiare i fenomeni e farcene, infine, un’idea nostra, fondata su ciò che attorno a noi continua ad accadere. Un’idea che non sarà magari di prima mano, ma che di prima mano avremmo compulsata, confrontata, verificata. Parlando con amici, con i missionari che vi hanno speso le loro vite, leggendo qualche libro, interrogando fonti di prima mano (anche Internet può andare bene, purché si sappia che cosa scegliere e secondo quale criterio). A me, per esempio, pare di aver capito che, anche quando noi diciamo “Africa”, inciampiamo in un terribile luogo comune. Ci diciamo “Africa” quasi che l’Africa fosse una. Di Afriche, invece, ce ne sono tante – così come, e bene lo sappiamo guardandola da dentro, molteplici e multiformi sono le Europe e le Italie perfino, tutte fra loro diverse, tutte dotate di caratteri e individualità, tutte e ciascuna con le proprie lingue e simili, magari, ma mai identici valori. Dovremmo studiarle queste Afriche, prima di farci andare bene il luogo comune – uno dei tanti, tutti troppo stretti e tutti troppo corti; tutti incapaci di risposte complete. Studiamole! Soltanto così potremo capire che cosa occorra – e che cosa si possa – fare. Che cosa possa star dentro il bagaglio dell’accoglienza, perché anche qui ci sarebbe da osservare che il «pronto soccorso» dell’accoglienza funziona, come è giusto e come meglio si può, ma sono tanto più fragili la «lungo degenza» e la sua programmazione, la cultura dell’accogliere e la scuola del venire accolti.
E pure il luogo comune si inocula nei nostri discorsi ogni volta che parliamo di migrazioni e cancella la nostra volontà di capire guardando con occhi neutri e nuovi. «Le migrazioni ci sono sempre state» dicono alcuni. «Mai come ora» dicono altri, che insistono ribadendo che non è il fenomeno a dar da pensare, ma la sua intensità e la rapidità con cui diviene. E poi, raccogliendo altri discorsi intorno allo stesso tavolo, si sente dire: «Dovremmo occuparci di chi se ne va». «Dovremmo pensare ai nostri giovani che lasciano l’Italia».
È vero che la globalizzazione ha spalancato le porte del mondo. Chi decida di migrare, di “andare via”, di sottrarsi al luogo in cui è nato, sa di trovare, ovunque, riferimenti che gli sono noti: piazze e strade e negozi e modi di comportarsi che, nella varietà sempre più smussata delle culture e dei mondi, non gli saranno mai completamente estranei. I più giovani sono oggi cittadini di un mondo che la globalizzazione e Internet hanno omologato e che, per questa omologazione, è loro tanto meno ignoto di un tempo e, quindi, nella psicologia della partenza, tanto meno spaventoso. Diventare “vagabondi digitali”, almeno se si è nati nel nostro mondo occidentale, è relativamente facile – all’altro capo del viaggio, mai tutto è sorprendente e mai tutto è illeggibile. Così i più giovani, tra i cittadini della vecchia Europa, preferiscono andarsene dalle città in cui sono nati per inventarsi un futuro non progettato dai padri, non in prestito; un futuro non per definizione migliore, ma che appartenga a loro soltanto. Sono 2 milioni negli ultimi 13 anni, secondo i dati dell’Anagrafe Italiani Residenti all’Estero (Aire).
La fluidità – fluidità della società, fluidità della cultura – che rende ogni luogo simile a ogni altro, prevede che, nella nuova geografia mondiale, spontaneamente si addensino centri e si delimitino periferie. Accade, anzi, che i centri siano sempre più polarizzati, sempre più aguzzi e “centrali”, mentre le periferie dilagano. I più giovani, con il coraggio, l’audacia spavalda della gioventù, vogliono andare là: dove la storia sta passando. Non si accontentano delle periferie della globalizzazione, per quanto belle e comode possano essere. Il “mito” delle grandi città del nord e della Mitteleuropa – Londra, Parigi, Berlino e Amsterdam – o delle città americane o, perfino, delle gangliche formicopoli del Far East, qui si appoggia: possono essere divoratrici di uomini, ma sono, anche, i luoghi in cui – oggi – le cose accadono. Questo sarà pure un mito, come quasi certamente è. Da sempre, i grandi motori della storia appartengono a due categorie: o sono miti o sono bisogni. Qualche volta sono miti e sono bisogni.
Coltivare la conoscenza, una conoscenza attiva, che sia d’ispirazione a un’azione consapevole e duratura, è un dovere morale. Credo che debba, a pieno titolo, appartenere all’Ucid, composta da imprenditori sensibili al tema dello sviluppo etico, così come previsto dalla Dottrina sociale della Chiesa. Potrà essere molto utile interrogarsi sui fenomeni, studiarli, farsi raccontare, per riferirlo, magari in contesti pubblici, quale sia la verità delle molte Afriche – e farlo con la voce dei missionari e degli imprenditori. Chiedersi, per esempio e per paradosso provocatorio, così come Filomeno Lopes, studioso e filosofo raffinato, ha fatto in un suo libro: «E se l’Africa scomparisse dal mappamondo?». C’è un luogo in cui trascorreremo tutto il resto della nostra vita ed è il futuro. Interessiamoci al futuro. I nostri figli e i nostri nipoti, più completamente di noi, vi sono immersi. Potrà essere utile, in questo senso, correre a impegnarsi perché la storia – e il sentimento del suo farsi – torni a passare da qui, dalle nostre città, dai luoghi delle nostre radici.
Non si scambi questa idea con una proposta di chiusura. È, infatti, un invito di senso opposto. Vale a dire di vitalità.