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Le tradizioni e l’efficienza

di Riccardo Pedrizzi – Vice Presidente Ucid Nazionale e Presidente UCID Gruppo Regionale Lazio

Da più parti e da numerosissimi commentatori politici e “maitres a penser” di tutti gli orientamenti culturali continuano ad arrivarci profezie e previsioni secondo le quali quando questa maledetta pandemia sarà finita NULLA SARA’ PIU’ COME PRIMA. Ma cosa è il “PRIMA” e cosa dovrà essere il “DOPO”.

Ecco il prima: se ci sono settori nei quali l’“americanismo” (quel misto di civiltà progressista, di modelli di comportamenti di cultura protestante e di mentalità massificata che dalla fine dell’ultima guerra mondiale ha invaso il globo scardinando tradizioni, costumi, culture ed identità nazionali) ha fatto più proseliti e si è imposto con più facilità, questi sono quelli degli affari, delle imprese, del lavoro e, nell’ambito di questo, in particolare dei dirigenti o, come comunemente vengono chiamati, dei managers.

Insomma è in genere l’intero mondo del lavoro che ne ha fatto le spese.

Questa assimilazione ai modelli di comportamento anglosassoni si è andata accentuando sopratutto negli ultimi anni, allorché si è fatta strada una filosofia del lavoro e dell’economia in base alla quale sono stati posti come principali obiettivi una specializzazione spinta, una responsabilizzazione esasperata, un professionalismo arido ed impersonale, una competitività aggressiva, come spesso ha rilevato Papa Francesco, una rincorsa al successo ed al profitto fine a se stesso ed una finanza non più al servizio dell’economia reale, ma della speculazione.

Siamo, perciò, immersi fino al collo, dopo la sbornia egalitarista, scioperaiola e disfattista degli anni settanta e degli anni ottanta dello scorso secolo, in pieno clima di quella che qualche pensatore definiva “la demonia dell’economia”, nell’ambito della quale si è venuto sviluppando un nuovo tipo di uomo ed una nuova antropologia: uomini omologati, sempre più simili tra loro, senza volto, senza radici e senza passioni, che si sacrificano sull’altare dei nuovi idoli del profitto, del successo personale o di gruppo, che sappiano fare a meno di ogni ancoraggio culturale e storico e siano in grado di muoversi al di fuori di ogni riferimento etico.

Un uomo tanto più funzionale a questo sistema – le cui leggi economiche, si continua a ripetere, non possono non essere “neutre” ed “indifferenti” ad ogni tipo di preoccupazione morale o sociale – quanto più condivida i nuovi “valori” del pensiero unico e quanto più faccia proprie le nuove categorie della competizione e della cosiddetta direzione per obiettivi.

Tra tutte le categorie del mondo del lavoro che maggiormente hanno risentito di questa nuova mentalità e di questo nuovo corso vi è senza dubbio – come si diceva – quella dei managers e dei dirigenti.

Con il bombardamento continuo dell’immagine dell’“executive” trenta/quarantenne, di bella presenza, aggressivo e di successo, con la diffusione di testi di organizzazione del lavoro di matrice anglosassone, con il proliferare di società di consulenza aziendale costituite, anche in Italia, da uomini statunitensi, si è riusciti nel giro di pochi anni a far “passare” l’idea e, purtroppo, la convinzione che per essere efficienti, per essere bravi, per essere competitivi ed aver successo, bisognava essere come loro, muoversi ed atteggiarsi come loro, attrezzarsi con i loro strumenti, e, quindi, adottare gli stessi comportamenti, fare gli stessi ragionamenti in base alle stesse categorie di pensiero, vivere secondo i loro valori.

Contro questa “campagna” si sono levate “d’istinto” varie voci non solo della gerarchia cattolica e dei Papi, sopratutto nelle ecicliche “Quadrigesimo anno” di Pio XI poi “Laborem exercens” e “Sollecitudo rei socialis” di San Giovanni Paolo II, “Caritas in veritate” di Benedetto XVI, “Lumen Fidei” e “Laudato si’” di Papa Francesco, ma anche di quelle forze che, essendo sostenitrici di una concezione dell’uomo integrale e di una visione della vita spirituale, etica e comunitaria, hanno sempre collocato al giusto posto la finanza, l’economia ed il lavoro, sostenendo il primato dell’uomo sul lavoro; il primato del lavoro sul capitale e sulle cose; il primato dell’economia sulla finanza.
A dare consistenza e scientificità a quella intuizione sono venuti poi una serie di studi, che hanno dimostrato in maniera rigorosa che l’efficienza non è affatto la risultante della spersonalizzazione dell’uomo, né della distruzione delle culture e dei valori della comunità a cui si appartiene, ma, anzi, che l’efficienza e la produttività possono fare leva proprio sulle tradizioni dei popoli, sui valori religiosi e morali, sulle culture e sui costumi nazionali.

Le tradizioni in cui ogni popolo ha messo le sue radici dettano ciò che esso ammira o disprezza: non si può governare senza adattarsi alla diversità di valori e di costumi.

De Maistre e la sua lezione (“Nel corso della mia vita io ho conosciuto francesi, italiani, russi; grazie a Montesqueu so anche che si può essere persiani; ma in quanto all’uomo dichiaro di non averlo mai incontrato: se esiste, esiste senza che io lo sappia”) sembrano veramente riecheggiare negli studi più recenti che hanno preso in esame il funzionamento di diverse aziende.

A seconda delle nazionalità, infatti, i criteri di discernimento cambiano, i comportamenti sono diversi, l’etica si modifica, i giudizi di valore variano.

Ad esempio, nelle imprese USA grande rilevanza viene attribuita ai rapporti che disciplinano le relazioni interpersonali tra dipendenti e management, quelle nell’ambito della scala gerarchica e quelle tra tutte le maestranze e la proprietà.

In pratica tutti i soggetti che gravitano nell’azienda si muovono come se fossero alternativamente fornitore e cliente: il dirigente è fornitore dell’azienda e cliente dei suoi dipendenti pertanto ciascuno si comporta a seconda della posizione che, comunque, viene regolamentata sempre come se si trattasse di un contratto di fornitura.

Di qui la spersonalizzazione e la neutralità delle relazioni, che si svolgono, perciò, in un universo asettico, nel quale le strategie, le regole, le procedure, gli obiettivi e la estrema mobilità funzionale e territoriale la fanno da padroni a dispetto dell’umanità e delle “storie” personali e relazionali dei singoli “operatori”.

In Europa, invece, la situazione era ed è alquanto diversa, perché l’operaio o il dirigente agisce per “adempiere i doveri che per consuetudine spettano alla propria categoria ed in relazione al proprio status.

L’uomo europeo in genere ha, cioè, sviluppato il senso di appartenenza ad un gruppo o ad una categoria o, addirittura, ad un popolo, perciò si muove in base ad una logica, che si potrebbe definire dell’onore e della fedeltà. (E’ l’economia sociale di mercato)

Da ciò l’assunzione di responsabilità verso il proprio ambiente, la difesa persino anche di certi privilegi, la resistenza alla mobilità geografica, la partecipazione affettiva e la identificazione anche sentimentale con il proprio lavoro.

Quel che emerge da queste recenti ricerche è la dimostrazione documentata che tutti questi valori, anche se possono creare alle volte ed in certe circostanze qualche problema, non compromettono affatto le professionalità, la competenza e la produttività dei singoli, né danneggiano l’azienda, condizionandone il risultato economico e, quindi, il profitto.

Del resto l’esempio del Giappone sarebbe dovuto risultare molto eloquente per confermare che uno sviluppo, quale quello fatto registrare dalla sua economia, e la efficienza produttiva, quale quella raggiunta dal suo sistema industriale, non sarebbero stati possibili se la presenza dei fenomeni di “adesione” e di “identificazione” non si fosse “sposata” con la sussistenza e la persistenza di valori quali quelli di “lealtà” ed “onore”, propri di una società tradizionale.

Valori che, per inciso, seppure non in maniera vincolante, continuano ad essere proposti anche dal nostro codice civile: per esempio, all’articolo 2105 che detta gli obblighi di fedeltà del lavoratore dipendente, che potrebbe rappresentare per tutto il mondo il DOPO.

Di questa realtà si stanno rendendo conto anche certi circoli imprenditoriali e certe scuole statunitensi se solo si considera il documento della cosiddetta “Tavola Rotonda” che ha “scoperto” che il profitto non è l’unico obiettivo dell’impresa, che deve essere al servizio dei territori e delle comunità locali.

Considerati gli essere umani per decenni solamente come soggetti razionali, privi di ogni sentimento e di radici, e perciò tutti simili e tutti uguali tra loro, solamente in questi ultimi tempi ci si sta rendendo conto di quello che di “irrazionale” vi è nel comportamento umano e come questa “irrazionalità” si stia manifestando anche nella scienza economica.

In pratica confermando che la chiave dell’efficienza del sistema produttivo e del suo sviluppo economico sta nella sintesi originale della professionalità, della competenza, della responsabilità e della specializzazione con la cultura del popolo e con le tradizioni civili e religiose dei territori.

Una sintesi a cui dovrebbe guardare ed a cui dovrebbe uniformarsi il mondo intero dopo la drammatica esperienza del covid-19.

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