L’EURO E IL BRADISISMO DELLA PRODUTTIVITA’ ITALIANA. E’ POSSIBILE INVERTIRE LA ROTTA
Giovanni Scanagatta, Professore di Politica economica e monetaria all’Università di Roma
L’EURO E IL BRADISISMO DELLA PRODUTTIVITA’ ITALIANA – E’ POSSIBILE INVERTIRE LA ROTTA (02-2024)
- Introduzione
Scopo della presente scheda e’di analizzare la progressiva perdita di produttività del sistema economico italiano dopo l’entrata in vigore dell’euro. Si tratta di una specie di bradisismo, cioè di un lento scivolamento della produttività italiana nel corso dei venti anni trascorsi dall’introduzione della moneta unica europea. Il termine bradisismo è stato usato da Antonio Fazio, già Governatore della Banca d’Italia (“Le conseguenze economiche dell’euro”, Cantagalli, Siena, 2023).
Tra le cause del bradisismo ci sono naturalmente i tempi e i modi in cui l’Italia è entrata nell’euro. Noi ci concentreremo sulle cause di questa lenta erosione ascrivibili prevalentemente ai ritardi con cui il nostro sistema economico e produttivo ha incorporato gli spettacolari sviluppi del progresso scientifico e tecnico. Si tratta delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, delle biotecnologie, delle nanotecnolgie e dei nuovi materiali, solo per citare le principali.
Possiamo pertanto dire con il grande economista austriaco J. Schumpeter che il progresso scientifico e tecnico è il motore dello sviluppo economico. Le innovazioni, come lui ci ha insegnato, sono da intendersi in modo molto ampio: non solo innovazioni di processo e di prodotto, ma anche ricerca di nuovi mercati, nuove vie di comunicazione, nuovi modelli organizzativi delle imprese e così via. In un sistema economico dinamico nascono settori nuovi e muoiono quelli vecchi, nascono imprese nuove e muoiono quelle vecchie, nascono famiglie nuove e muoiono quelle vecchie. Schumpeter guarda il lato dell’offerta che si modifica nei settori produttivi e nelle imprese, mentre Keynes guarda il lato della domanda, considerando stabile la struttura dell’offerta.
Dopo avere analizzato sul piano empirico la lenta erosione della produttività del nostro Paese nei 20 anni dell’euro, si cercheranno le cause di questa erosione partendo dalla legge di Verdoorn. Secondo questa legge, l’incremento della produttività è tanto maggiore quanto maggiore è l’incremento della produzione. Questa legge risulta tuttavia insufficiente perché nel lungo periodo è il tasso di accumulazione e gli investimenti che condizionano la dinamica della produttività e bisogna pertanto guardare non solo dal lato della domanda, come ci ha insegnato Keynes, ma anche dal lato dell’offerta. Bisogna creare spazio ai risparmi e agli investimenti, tenendo sotto controllo l’espansione dei consumi e delle importazioni. Si tratta non solo di risparmio interno ma anche di flussi di capitali dall’estero.
- L’erosione di produttività del sistema economico italiano nei 20 anni dell’euro: l’evidenza empirica
Partiamo da una definizione. Il progresso tecnico determina l’aumento della produttività e questa produce due effetti fondamentali: in gran parte l’aumento del reddito pro capite e in misura minore, ma crescente, la riduzione dei tempi di lavoro.
Come indicatore della dinamica della produttività, consideriamo il reddito pro capite dell’Italia negli anni successivi all’entrata in vigore dell’euro. Poiché ci interessa la dinamica relativa dell’Italia, prenderemo in considerazione il prodotto interno lordo pro capite, a parità di potere d’acquisto, dell’Italia e della Germania rispetto agli Stati Uniti d’America. Emergeranno di conseguenza le differenze tra l’Italia e la Germania (PILPCIT/PILPCUSA: PILPCGER/PILPCUSA = PILPCIT/PILPCGER).
Come mostra il grafico seguente, nei primissimi anni dell’euro, le distanze tra la dinamica della produttività dell’Italia e della Germania sono molto contenute e le due dinamiche sono parallele. Successivamente, i due andamenti cominciano a divaricarsi e il distacco assume valore massimo alla fine del periodo (2017 ultimo anno disponibile secondo il database di Index Mundi). Il coefficiente di correlazione lineare tra le due serie di dati è negativo e pari a -0,44.
Si è quindi proceduto a stimare i due trend lineari relativi alla Germania e all’Italia. Come illustrato nel grafico seguente, il trend della Germania è positivo e quello dell’Italia è negativo e indica la perdita progressiva di produttività del nostro Paese.
- La legge di Verdoorn e il bradisismo della produttività italiana dopo l’euro
Secondo la legge di Verdorn, la continua erosione (bradisismo) della produttività italiana dipende dalla sua scarsa dinamica rispetto alla crescita del reddito. La crescita del reddito, dopo l’entrata dell’euro, è bassa e questa determina una bassa crescita della produttività.
Sul piano dell’evidenza empirica degli anni passati, prima dell’adozione dell’euro, è utile ricordare il lavoro pubblicato su Moneta e credito nel 1968 da Giacomo Vaciago con il titolo “Sviluppo della produttività e legge di Verdoorn nell’economia italiana”. Vaciago cita testualmente, all’inizio dell’articolo, il modello di Sylos Labini. Ecco le sue parole: “Il Professor Sylos Labini, illustrando, i possibili sviluppi del modello dell’economia italiana recentemente elaborato, fa riferimento in particolare alla necessità di includervi come variabile endogena la produttività industriale. In proposito osserva; “Su questa linea s’incontra la ben nota legge di Verdoorn, recentemente messa in onore da Kaldor; secondo questa legge, l’incremento della produttività è tanto maggiore quanto maggiore è l’incremento della produzione”.
Vaciago prosegue in questo modo: “In questo studio intendiamo esaminare criticamente la portata della legge di Verdoorn, considerandone in particolare la validità per l’economia italiana. L’importanza di questa legge a livello teorico e le notevoli implicazioni che ne sono state dedotte sul piano della politica economica, giustificano una valutazione accurata delle sue basi empiriche”.
Il periodo di stima della legge di Verdoorn effettuata da Vaciago copre il periodo che va dal 1953 al 1960, quindi gli anni del “miracolo economico” italiano.
Il problema della relazione tra crescita della produzione e dinamica della produttività riguarda l’inclusione nella funzione degli investimenti come variabile esplicativa. A questo riguardo, scrive Vaciago: “Verdoorn è invece estremamente esplicito nel negare che l’investimento sia il fattore causale fondamentale e pone interamente l’accento sui rendimenti crescenti che accompagnano l’espansione della produzione, Kaldor pure sostiene che i rendimenti crescenti costituiscono l’interpretazione rilevante della legge di Verdoorn””.
Vaciago conclude il suo lavoro affermando di avere mostrato la relazione fra produzione e produttività nel breve periodo. E’ chiaro che l’analisi è lontana dall’esaurire l’esame dei fattori da cui lo sviluppo della produttività stessa dipende. Si tratta del lungo periodo con i relativi fenomeni di trend e di ciclo economico, soprattutto nelle economie progressive in cui gioca molto, come attualmente, l’accelerazione del progresso scientifico e tecnico.
Cominciamo con il testare, sul piano più generale possibile, la legge di Verdoorn: per un lunghissimo periodo di tempo e a livello mondiale. Ciò è possibile utilizzando i dati davvero unici di A. Maddison che coprono per il periodo che va dall’anno 1 dopo Cristo all’anno 2003 e per il mondo intero, la popolazione mondiale e il prodotto interno lordo, a prezzi in dollari del 1990, di tutto il mondo. I dati di Maddison consentono quindi di ricavare il prodotto interno lordo pro capite per un lunghissimo periodo di tempo e per il mondo intero e quindi le sue variazioni con una stima della dinamica della produttività. E’ quindi possibile stimare la relazione tra variazioni della produttività e variazioni del prodotto secondo la legge di Verdoorn. Per motivi di confronto, la stima per lo stesso lunghissimo periodo di tempo verrà effetuata per l’Europa Occidentale e per gli Stati Uniti d’America.
Il grafico seguente illustra per il lunghissimo periodo che va dall’anno 1 all’anno 2023 la variazione percentuale annua del PIL mondiale e del PIL pro capite.
Il secondo grafico è relativo all’Europa Occidentale e rappresenta le due serie storiche della variazione percentuale annua del PIL e del PIL pro capite dall’anno 1 all’anno 2023.
Riportiamo infine il grafico e la stima della relazione lineare tra la variazione percentuale annua del PIL degli USA e del PIL pro capite nel periodo che va dall’anno 1 al 2023.
Da queste tre illustrazioni grafiche della legge di Verdoorn per un lunghissimo periodo di tempo, rispettivamente per il Mondo intero, per l’Europa Occidentale e per gli Stati Uniti d’America, possiamo dire che la legge viene sostanzialamente.
Per quanto riguarda, in particolare, l’Europa Occidentale è interessante evidenziare una certa ripresa della crescita del PIL e del PIL pro capite nel periodo tra il 1000 e il 1500, cioè nel Rinascimento. Ma la prima vera accelerazione del PIL e del PIL pro capite si osserva si registra con la prima rivoluzione industriale tra il 1820 e il 1870 e tra il 1870 e il 1913. Il periodo tra le due guerre mondiali, 1913-1950, segna una caduta della crescita del PIL e del PIL pro capite. Entriamo poi nella golden age del periodo 1950-1973 che registra un’eccezionale crescita del PIL e del PIL pro capite nell’Europa Occidentale. L’Italia partecipa attivamente a questo eccezionale periodo di sviluppo con il famoso “miracolo economico”. Nel periodo 1973-2003 l’Europa Occidentale registra una forte caduta del tasso di crescita del PIL e del PIL pro capite, con la prima parte degli anni settanta caratterizzata dalle due pesanti crisi petrolifere. L’Europa accusa un notevole ritardo tecnologico, soprattutto rispetto agli Stati Uniti d’America, con effetti negativi sulla crescita della produttività e del reddito pro capite. Questo fenomeno colpisce particolarmente il nostro Paese con una produttività bassa, soprattutto nei 20 successivi all’entrata in vigore dell’euro (bradisismo della produttività).
Dopo questa verifica generale della legge di Verdoorn, torniamo al nostro periodo che fa riferimento ai circa 20 anni trascorsi dall’adozione dell’euro, cioè un periodo immediatamente successivo a quello lunghissimo che abbiamo analizzato. E’ utile precisare che il periodo stimato da Vaciago riguarda anni di alta crescita del reddito, mentre il nostro periodo, dopo l’euro, è un periodo di bassa crescita, soprattutto per quanto riguarda l’Italia.
La crescita media annua del PIL italiano nel periodo 2001-2017 è pari a 0,05, lo scarto quadratico medio a 1,73 e il coefficiente di variazione a 36,79 (rapporto tra scarto quadratico medio e media). La crescita media annua del PIL tedesco nello stesso periodo è risultata invece pari a 1,19, lo scarto quadratico medio a 1,76 e il coefficiente di variazione a 1,48. E’ utile il confronto con gli Stati Uniti d’America che nello stesso periodo hanno registrato una crescita media annua del PIL pari a 1,96, uno scarto quadratico medio di 1,46 e un coefficiente di variazione di 0,74. Il seguente grafico illustra le medie annue della crescita del PIL dell’Italia, della Germania e degli USA, in ordine crescente.
- Stima del bradisismo della produttività italiana dopo l’euro e alcune cause
Per stimare il bradisismo della produttività italiana dopo l’entrata nella moneta unica europea si farà riferimento alla variazione del rapporto tra prodotto interno lordo a parità di potere d’acquisto tra Italia e Germania. Il grafico seguente illustra l’andamento di tale rapporto nel periodo 2001-2017 e il relativo trend di tipo lineare. Si procederà quindi a calcolare la variazione media annua dello stesso rapporto sulla base del confronto tra i valori dell’anno iniziale e di quello finale.
Dalla stima del trend negativo risulta che, al passare di ogni anno, la perdita di produttività dell’Italia rispetto alla Germania è pari a 1,64. Quindi, in 20 anni, la perdita stimata è del 33%.
Le cause del bradisismo della produttività dell’Italia dopo l’entrata dell’euro sono naturalmente molte, a partire dai tempi e dalle modalità di entrata nella moneta unica europea.
Qui ci soffermeremo sulle cause riguardanti il ritardo tecnologico, in un periodo di forte accelerazione del progresso scientifico e tecnico: tecnologie dell’informazione e della comunicazione, biotecnologie, nanotecnologie, nuovi materiali e altro.
Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione sono di diversa natura e hanno differenti effetti sulla produttività. Ci sono quelle di tipo informativo, le tecnologie di tipo transazionale cioè il commercio elettronico e le tecnologie di tipo strategico. Sono queste ultime che consentono delle vere e proprie rivoluzioni dei modelli organizzativi aziendali con una integrazione delle diverse funzioni dell’impresa e un sistematico collegamento con i mercati interni e internazionali. Solo le tecnologie di tipo strategico consentono dei veri e propri salti di produttività, ma putroppo in questo campo le nostre imprese mostrano dei ritardi che occorre recuperare, grazie anche a idonee politiche industriali.
L’evidenza empirica disponibile mostra differenze significative in aree strategiche di competitività tra campioni di imprese manifatturiere con alti investimenti in tecnologie dell’informazione e della comunicazione e campioni di imprese con bassi investimenti in tecnologie dell’informazione. I due gruppi di imprese sono significativamente diversi per una serie di variabili qualitative e quantitative. Il primo gruppo appare maggiormente dinamico sul piano dei modelli organizzativi con maggiori acquisizioni, più elevate spese in ricerca e sviluppo, incidenza maggiore dei laureati sul numero complessivo dei dipendenti, maggiore attenzione alla qualità dei prodotti e dei processi produttivi, maggiore presenza sui mercati esteri con più alta incidenza delle esportazioni sul fatturato, con maggiori accordi commerciali e tecno-produttivi con imprese estere, con più elevati scambi di brevetti e licenze, con maggiori investimenti di penetrazione commerciale all’estero, con una più elevata incidenza degli investimenti diretti all’estero.
Sul piano generale, la principale debolezza del nostro sistema produttivo è lo scarso collegamento nel campo della ricerca e dello sviluppo con i centri di ricerca pubblici e privati e con le università. Si tratta del grosso problema del trasferimento tecnologico, con le ricadute a livello di impresa dei risultati nel campo dei brevetti e delle spese in ricerca e sviluppo. A questo riguardo, i tre indicatori fondamentali sono i brevetti, le spese in ricerca e sviluppo e il numero dei laureati e dei dottorati di ricerca sul totale dei dipendenti.
D’altra parte, a livello di Paese, l’incidenza delle spese in ricerca e sviluppo sul PIL è poco superiore all’1%, una percentuale lontanissima dall’obiettivo fissato dall’Unione Europea per il 2020 pari al 3% del PIL. L’Italia si colloca nelle posizioni più basse della graduatoria dell’Unione Europea relativa all’incidenza delle spese di ricerca e sviluppo sul PIL. Solo negli ultimi anni si nota un lieve miglioramento.
- Considerazioni conclusive
I dati disponibili indicano una certa ripresa, sia pure lenta, dell’incidenza delle spese in ricerca e sviluppo sul prodotto interno lordo (PIL) del nostro Paese. L’incidenza si colloca pur sempre sotto al peso delle spese militari sul PIL. In ogni caso, l’Italia rimane molto al di sotto della media UE con 27 Paesi.
La distribuzione dei brevetti a livello nazionale conferma lo spostamento del triangolo industriale dal Nord-Ovest (Lombardia, Piemonte Liguria) al Nord-Est e Centro (Veneto, Friuli Venezia Giulia- Emilia Romagna, Marche, Lazio).
I brevetti guadagnano terreno in settori con limitato tasso di crescita. Il loro numero, in ogni caso, rimane molto lontano da Paesi nostri diretti concorrenti come la Francia e soprattutto la Germania.
La minore crescita del prodotto porta ad uno sviluppo più lento della produttività (legge di Verdoorn). Come si è detto, si stima che nei 20 anni successivi all’adozione dell’euro l’Italia ha perso circa il 33% di produttività rispetto alla Germania. Ciò giustificherebbe un livello dei salari italiani inferiori a quelli tedeschi per almeno il 30%. E’ pertanto indispensabile accrescere la produttività per ridurre le distanze dei salari italiani rispetto a quelli dell’Unione Europea.
I dati disponibili confermano anche la storica debolezza del sistema finanziario italiano a sostegno della crescita e dello sviluppo delle imprese più innovative. Pensiamo allo scarso sostegno finanziario a favore degli incubatori, degli spin-off e delle start-up innovative e al legame a monte con il portafoglio brevetti.
Non va, per tutto questo, dimenticata la notevole vivacità e competitività di alcuni settori produttivi italiani, come ad esempio il farmaceutico, il biomedicale, il chimico e l’agroalimentare. Il settore farmaceutico esporta circa tre quarti della produzione e registra un’incidenza delle spese di ricerca e sviluppo di quasi il 20% sul fatturato. Il settore dei biomedicali conta circa 4 mila imprese, spesso organizzate in distretti industriali, tra cui spicca per importanza quello di Mirandola, in provincia di Modena. A Mirandola si trova il più grande polo biomedicale d’Europa.
Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale offre notevoli opportunità al nostro sistema produttivo basato sulle piccole e medie imprese. Si prevede infatti che le applicazioni ai vari settori saranno in prevalenza effettuate da imprese di piccole e medie dimensioni. Il nostro sistema finanziario dovrebbe sostenerle nella fasi della creazione e dello sviluppo, superando la storica debolezza che lo ha caratterizzato in questo campo (seed capital, incubatori, spin-off, start-up innovative). Si accrescerebbe il sostegno del sistema finanziario all’aumento della produttività e della competitività del nostro sistema produttivo, uscendo dalla trappola della stagnazione economica che ci blocca da troppi anni.