Agli inizi degli anni ottanta abbiamo assistito ad una intenso dibattito sugli effetti della tassazione sulla crescita e sullo sviluppo, in relazione alla forte espansione del settore pubblico sia dal lato della spesa che da quello delle entrate.
Si chiamò allora in causa la curva di Arthur Laffer, che mette in relazione l’andamento della pressione fiscale con il gettito delle imposte. Tale relazione ha la forma di una parabola, con il massimo corrispondente ad un certo livello della tassazione. Al di sotto di tale livello, il gettito può crescere sia pure a tassi decrescenti all’aumentare della pressione fiscale. Superato tale livello, l’aumento della pressione fiscale si accompagna a tassi negativi della crescita del gettito[1].
La curva di Laffer consentiva di aprire il discorso sul livello della tassazione massima compatibile con lo sviluppo nel lungo periodo, individuata in alcuni studi intorno al 30% del reddito.
Il nostro Paese ha abbondantemente superato tale livello e occorre pertanto interrogarci sugli effetti economici di lungo periodo di tale situazione.
Il problema riguarda soprattutto la tassazione complessiva del reddito delle imprese che ha raggiunto negli ultimi anni livelli inusitati. Solo recentemente il Governo ha cominciato ad affrontare tale problema con alcuni provvedimenti, peraltro di non grande portata.
Nell’ultimo triennio la pressione fiscale complessiva sul reddito delle nostre imprese manifatturiere è passata da percentuali intorno al 40% a valori che in alcuni casi superano il 90%. La pressione fiscale sulle imprese è pertanto più che raddoppiata in un triennio, con effetti sui loro comportamenti soprattutto per quanto riguarda i modelli di sviluppo.
Una prima reazione delle imprese potrebbe essere quella di accelerare gli ammortamenti delle immobilizzazioni materiali e immateriali, puntando ad un sostanziale pareggio del conto economico e quindi ad azzerare la tassazione. Ma questo comportamento incontra naturalmente degli evidenti limiti connessi con le aliquote massime consentite per gli ammortamenti.
Ma c’è un altro effetto economico della eccessiva tassazione dei redditi di impresa che qui preme evidenziare. Esso riguarda i modelli di sviluppo dell’impresa e i processi di internazionalizzazione nel mondo globalizzato e di mobilità non solo dei beni e dei servizi ma di tutti i fattori della produzione.
Agli attuali livelli di tassazione che raggiungono ormai il 100% dei redditi, l’impresa che vuole e può crescere non lo fa per linee interne espandendo il fatturato nel proprio Paese ed esportando una quota di esso, ma facendo acquisizioni di imprese all’estero, cioè investimenti diretti all’estero. Si tratta indubbiamente di una forma più elevata di internazionalizzazione rispetto alle esportazioni. In questo modo, ciò che conta per l’impresa non è tanto la quota di esportazioni che essa detiene, ma la quota di mercato mondiale che essa è in grado di controllare nel proprio settore, indipendentemente da dove produce. La produzione tende pertanto a spostarsi dal mercato interno ai mercati esteri dove è avvenuta l’acquisizione di impresa, con effetti produttivi ed occupazionali negativi per il nostro Paese e quindi per le entrate tributarie provenienti dalla tassazione dei redditi di impresa.
L’impresa tende a spostare le proprie produzioni dove la tassazione è meno penalizzante, come pure per l’accesso ai vari fattori produttivi, con un impoverimento del Paese dove la tassazione è eccessiva per i processi di accumulazione e sviluppo.
Un sistema industriale come il nostro che dipende molto per il finanziamento del suo sviluppo dal sistema bancario, e che presenta un basso livello di capitalizzazione, soprattutto per motivi fiscali, ha bisogno assoluto di rilanciare il risparmio di impresa (autofinanziamento) e questo obiettivo è raggiungibile solo con un regime diverso degli ammortamenti e con una minore tassazione dei redditi di impresa.
Diversamente, non si riuscirà ad arrestare il pericoloso processo di deindustrializzazione in atto nel nostro Paese, con conseguenze negative per i processi di accumulazione e sviluppo e, in definitiva, per le possibilità occupazionali soprattutto delle nostre giovani generazioni.
[1] Possiamo presentare formalmente una versione modificata della curva di Laffer, mettendo in relazione non il gettito con la pressione fiscale, ma la dinamica del reddito con la pressione fiscale. Tale versione modificata può essere rappresentata nel modo seguente: Y = a + b T/Y – c (T/Y)^2; dove a, b e c sono dei parametri e T/Y la pressione fiscale come rapporto tra i tributi (T) e il reddito nazionale (Y). Se indichiamo la pressione fiscale con t, possiamo riscrivere la relazione prima indicata: Y = a + b t – c t^2. Il tasso di crescita del reddito in funzione della pressione fiscale può essere espresso con la derivata prima di Y rispetto a t. Possiamo pertanto scrivere: Y’ = b – 2ct. Tale espressione diventa nulla per t = b/2c. Pertanto, se b è uguale a c, la pressione fiscale a cui corrisponde una crescita nulla del reddito è pari al 50%. Se invece b è minore di c, la crescita del reddito è nulla per una tassazione minore del 50%. Infine, per b maggiore di c abbiamo una crescita nulla del reddito per una pressione fiscale superiore al 50%. Al di sotto di tali percentuali, la crescita del reddito è positiva mentre al di sopra la crescita del reddito è negativa.