Il grande economista austriaco J. Schumpeter affermava nella sua “Teoria dello sviluppo economico” del 1911 che il progresso tecnico è il motore dello sviluppo economico. Il progresso tecnico consente salti di produttività che si traducono in larga misura in un aumento del reddito pro capite e in parte minore in una riduzione del tempo di lavoro. Il progresso tecnico libera pertanto l’uomo dalla fatica materiale e crea maggiori spazi per il tempo libero. Il modello di sviluppo economico schumpeteriano poggia su tre pilastri: a) l’imprenditore innovatore; b) un sistema di piccole e medie imprese immerse in un ambiente competitivo; c) le banche che creano credito e rendono possibile la trasformazione delle idee in prodotti per il mercato.
Sopra tutto sta l’imprenditore innovatore, quindi una persona e non una struttura. Anche se Schumpeter non era credente, almeno ufficialmente, siamo qui nel campo dei grandi valori della Dottrina Sociale della Chiesa che vede la persona umana al centro di ogni processo economico e sociale, con i suoi valori di libertà, responsabilità, dignità, creatività. L’imprenditore innovatore va distinto dal manager. Il primo è un soggetto creato e il secondo un soggetto fabbricato nelle scuole di management. L’imprenditore innovatore risponde del rischio competitivo dell’impresa in un’ottica di medio-lungo periodo (ad esempio crisi settoriale) e del rischio sociale per conflitti con gli stakeholder interni ed esterni all’impresa (conflitti con i lavoratori, con le comunità locali, con le istituzioni locali, con i clienti, con i fornitori, con gli azionisti e così via). Il manager risponde del rischio economico finanziario nel breve periodo (rischio di default). Dobbiamo pertanto pregare Dio che ci dia buoni e tanti imprenditori innovatori che solo Lui può creare. Non dobbiamo invece preoccuparci dei manager perchè le scuole di management di tutto il mondo ne possono sfornare quanti ne vogliamo.
Del progresso tecnico parla esplicitamente Benedetto XVI nella grande Enciclica sociale Caritas in veritate, dedicando un intero capitolo, il sesto, allo sviluppo dei popoli e la tecnica. Nel punto 69 dell’Enciclica si legge che “La tecnica permette di dominare la materia, di ridurre i rischi, di risparmiare fatica, di migliorare le condizioni di vita. Essa risponde alla stessa vocazione del lavoro umano: nella tecnica, vista come opera del proprio genio, l’uomo riconosce se stesso e realizza la propria umanità”.
In estrema sintesi, è questo il quadro entro cui dobbiamo inserire correttamente la quarta rivoluzione industriale. I suoi paradigmi tecnologici vengono definiti in modi diversi, ma tra di loro esistono forti correlazioni e sovrapposizioni e quello che importa sono gli effetti sull’aumento della produttività, stimato tra il 30 e il 50%. Si può parlare di learn manufacturing, di supply chain management, di smart manufacturing, di industry 4.0 o di altro, ma gli effetti dell’applicazione di queste tecnologie sono sempre gli stessi: l’aumento della produttività e la rivoluzione del modo di lavorare e delle competenze richieste.
Una ricerca condotta recentemente dall’Osservatorio Smart Manufacturing della School of Management del Politecnico di Milano su un campione di circa 300 imprese italiane di medie e grandi dimensioni e di dimensioni piccole, mette in evidenza che solo il 13% ha sviluppato soluzioni di smart manufacturing. Le imprese che hanno in programma investimenti in questo campo sono il 12%. Si tratta di percentuali non molto superiori a quelle messe in evidenza agli inizi degli anni duemila dall’Indagine sulle imprese manifatturiere dell’Osservatorio sulle piccole e medie imprese del Mediocredito centrale sulle imprese che investivano in modo massiccio nelle forme più avanzate e strategiche delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Si trattava allora di percentuali oscillanti tra il 7 e il 10% del totale delle imprese del campione di oltre 4 mila unità.
L’indagine del Politecnico di Milano mette in evidenza che nel 2015 gli investimenti nel settore della smart manufacturing valgono il 10% degli investimenti complessivi dell’industria. Per il 2016 viene prevista una crescita del 20%. Si tratta tuttavia di investimenti che hanno un significato e una dimensione diversa di quelli tradizionali in impianti, macchinari e attrezzature. Sono investimenti a bassa intensità di capitale, con un rapporto medio di 1 a 5 rispetto agli investimenti tradizionali. Si abbassa quindi fortemente la necessità relativa di capitale e si riducono di conseguenza i vincoli finanziari alla realizzazione di questi investimenti. Facendo riferimento al modello di sviluppo economico di Harrod-Domar, si riduce il rapporto tra capitale e prodotto e quindi, a parità di propensione media al risparmio, aumenta il tasso di crescita potenziale dell’economia.
Ma quasi il 40% delle imprese dichiara ancora di non conoscere i temi dell’industry 4.0. Circa un terzo delle imprese ha già avviato tre o più progetti utilizzando tecnologie digitali innovative come l’Industrial Internet of Things, l’Industrial Analytics, il Cloud Manufacturing, l’Advance Automation, l’Advanced Human Machine Interface o l’Additive Manufacturing. Il 66% del valore degli investimenti è rappresentato da applicazioni tecnologiche di Internet of Things per l’industria. Tutte queste tecnologie integrano le diverse funzioni aziendali e l’impresa con il mercato interno e con i mercati internazionali. Si tratta ad esempio delle relazioni con i clienti, cioè della Customer Relationship Management (CRM), che consente una fidelizzazione totale della clientela consentendo a questa di interagire con la produzione per manifestare in anticipo le proprie preferenze, prima che il bene venga immesso sul mercato.
L’internet delle cose (IOT) riguarda sistemi di sensori che collegano e fanno interagire le persone che lavorano tra di loro e con le macchine, richiedendo livelli di formazione e di professionalità sempre più elevati. L’applicazione di queste nuove tecnologie rivoluziona quindi i modi di lavorare e, in generale, il mercato del lavoro.
La ricerca del Politecnico di Milano offre anche dati interessanti riguardanti le start up nel settore della Smart Manufacturing a livello mondiale. Il numero delle start up finanziate cresce del 15% all’anno già da tre anni. La start up analizzate sono poco meno di 200, di cui il 60% con sede in Nord America e solo il 30% in Europa. Gli Stati Uniti d’America sono la patria delle nuove imprese, con un valore medio di finanziamento cinque volte superiore a quello osservato in Europa. In Italia sono state censite 20 start up nel settore della Smart Manufacturing. Si tratta in gran parte di start up operanti nel settore del Cloud Computing (Big Data). In questo campo, come è noto, esistono agevolazioni fiscali e normative del Ministero dello Sviluppo Economico per le start up innovative. Si tratta, secondo gli ultimi dati, di quasi 6 mila nuove imprese, di cui il 9% nel Comune di Roma. I settori maggiormente presenti sono la produzione di software, consulenza informatica e ricerca.
La nascita di nuove imprese connota diversamente il modello di sviluppo, rispetto ad un modello che si basa prevalentemente sulla crescita delle imprese esistenti.
Per fronteggiare la sfida della quarta rivoluzione industriale è in dirittura d’arrivo un programma nazionale di trasformazione digitale del nostro settore industriale. Si ritiene tuttavia che debbano essere valorizzati anche altri strumenti come le partecipazioni di minoranza al capitale di rischio di imprese di media dimensione solide sul piano economico, da parte del Fondo Strategico Italiano (FSI) della Cassa Depositi e Prestiti (80%) e della Banca d’Italia (20%). Imprese che fanno capo a soci dell’Ucid hanno già beneficiato di interventi, in sede di aumento del capitale, del Fondo Strategico Italiano. Per favorire la diffusione delle tecnologie digitali della quarta rivoluzione industriale che consentono veri e propri salti di produttività, FSI potrebbe condizionare il suo intervento sul capitale di rischio delle imprese di media dimensione sane ad investimenti significativi nel settore della Smart Manufacturing. Tali imprese di media dimensione, stimate in circa 2 mila, potrebbero svolgere l’importante funzione di “pesce pilota” per il grande numero di piccole imprese che caratterizzano il sistema industriale italiano. Si tratta, in sostanza, del modello “piccole imprese e grandi reti”, rispetto al modello alternativo di “grandi imprese integrate”.
Tutto il sistema produttivo potrebbe essere così spinto verso l’adozione di queste tecnologie che consentono veri e propri salti di produttività di cui abbiamo estremo bisogno per fronteggiare la grande sfida della competizione nei mercati globali.