In Italia è passato finora sotto silenzio l’ottantesimo anniversario della pubblicazione della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di J.M. Keynes (1936-2016). La cosa meraviglia un po’, se si pensa che nel 1935 Keynes scrisse a G.B. Shaw dicendo: “Credo che scriverò un libro di teoria economica che rivoluzionerà in gran parte – non credo immediatamente, ma nel corso dei prossimi dieci anni – il modo in cui il mondo guarda ai problemi economici”.
La rivoluzione a cui si riferiva Keynes riguardava diversi punti cruciali della precedente teoria economica.
Primo, che i prezzi non sono in grado di riequilibrare la domanda con l’offerta quando ci sono degli squilibri. In sostanza, veniva portato un forte attacco alla legge di Say seconda la quale l’offerta crea la propria domanda, con una fondamentale funzione riequilibratrice dei prezzi, dei salari e del tasso di interesse. Possiamo pertanto avere, secondo Keynes, un equilibrio di sotto-occupazione con un reddito (quantità) che assicura sì l’uguaglianza tra risparmi e investimenti, ma non la piena occupazione dei fattori produttivi.
Secondo, il tasso di interesse non è determinato dal risparmio e dagli investimenti come nella teoria classica, ma dalla curva della preferenza per la liquidità e dall’offerta di moneta.
Terzo, l’efficienza marginale del capitale è molto variabile rispetto al tasso di interesse e ciò determina le crisi perché nessun tasso di interesse, e quindi la politica monetaria, è in grado di compensare l’efficienza marginale del capitale, soprattutto quando questa precipita, per riavviare per via endogena, con l’abbassamento del tasso di interesse, l’accumulazione e lo sviluppo.
La grave crisi del 1929 era dovuta per Keynes al sottoconsumo (deficienza della domanda) e non al sovrainvestimento, come affermavano invece Hayek e gli altri economisti della scuola austriaca.
In questa situazione, per risollevare l’economia dalla disoccupazione, era necessario l’intervento dello Stato con gli investimenti pubblici. Gli investimenti pubblici avrebbero risollevato la domanda e quindi via moltiplicatore il reddito e l’occupazione. In questa visione, gli investimenti precedono la formazione del risparmio, sollevando le perplessità di molti economisti italiani tra cui Luigi Einaudi, ma anche implicitamente di M. Kalecki che vedeva nel processo di sviluppo attraverso le imprese l’importanza dell’autofinanziamento come premessa del processo di accumulazione e sviluppo.
Dopo la generazione di Einaudi, gran parte degli economisti italiani sono keynesiani con una frattura però che incomincia a intravedersi negli anni settanta con le due crisi petrolifere, la grande inflazione e la messa in discussione della curva di Phillips sulla relazione negativa tra inflazione e disoccupazione. M. Friedaman e i monetaristi portano un duro colpo alla curva di Phillips attraverso il concetto di tasso naturale di disoccupazione e la visione che nel lungo periodo la moneta, e quindi la politica monetaria, non possono avere effetti sul reddito reale e sull’occupazione. Siamo in piena diatriba tra monetaristi e keynesiani in cui c’è però una cosa che condividono, cioè la teoria del portafoglio, ma con un ruolo diverso delle aspettative. Nasce in questo contesto la teoria delle aspettative razionali di Sargent e Wallace che sostiene la neutralità della moneta non solo nel lungo periodo, come sostiene Friedman, ma anche nel breve.
Arriviamo così alla grande crisi finanziaria e delle banche che inizia nel 2007-2008 e continua fino ai nostri giorni. Si cerca di fronteggiare tale crisi prevalentemente con le politiche monetarie, con forti immissioni di liquidità e bassi tassi di interesse, che raggiungono addirittura livelli negativi. Di politiche fiscali di tipo keynesiano per risollevare la domanda, la crescita e l’occupazione non se ne parla nemmeno, anche per i vincoli fiscali che si dà l’Unione Europea in termini di rapporto tra deficit pubblico e PIL e tra debito pubblico e PIL. Ma su questo terreno la partita è ora più che mai aperta perchè l’Unione Europea sta attraversando una forte crisi, dopo l’uscita della Gran Bretagna. Pertanto, prima o poi, l’Unione Europea sarà costretta, per riavviare lo sviluppo e l’occupazione, aprire il tavolo delle politiche fiscali sapendo che la politica monetaria ha ormai esaurito tutti i margini di manovra. E a questo punto dovrà per forza rinascere la visione keynesiana dello sviluppo e dell’occupazione.
Fin qui la rivoluzione keynesiana dal punto di vista strettamente economico. Ma a noi interessa accennare anche alla visione del mondo di Keynes, con un confronto con il pensiero sociale della Chiesa. Keynes termina la Teoria generale affermando che, nel bene e nel male, il futuro di ogni società non è determinato, nel lungo periodo, dagli interessi costituiti ma dalla forza delle idee. E ancora, nella splendida monografia del 1919 su “Le conseguenze economiche della pace”, nel capitolo finale dedicato ai rapporti dell’Europa con la Russia, Keynes afferma che “In un modo soltanto possiamo agire su queste correnti nascoste: mettendo in moto quelle forze dell’educazione e dell’immaginazione che cambiano l’opinione. Affermare la verità, svelare le illusioni, dissipare l’odio, allargare ed educare il cuore e la mente degli uomini: questi i mezzi necessari”. Una visione del mondo del tutto coerente con i grandi principi della Dottrina Sociale della Chiesa, soprattutto con riferimento alla centralità della persona umana nei processi di sviluppo per la costruzione del bene comune. Quella di Keynes è certamente una visione del mondo da “liberale riformista” che può incontrarsi con la cultura cristiana, come intuì molto chiaramente Hayek nel 1947 affermando l’importanza per il futuro dell’Europa dell’incontro tra la cultura cristiana e la cultura liberale.