L’impresa è una grande istituzione per la produzione e la distribuzione della ricchezza e un luogo fondamentale per la costruzione del bene comune.
Questa definizione viene mirabilmente espressa da Papa Francesco nel capitolo quarto dell’Esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, Evangelii gaudium. “La vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita; questo gli permette di servire veramente il bene comune, con il suo sforzo di moltiplicare e rendere più accessibili per tutti i beni di questo mondo” (203). Papa Francesco ha citato questo punto della Evangelii gaudium in occasione della memorabile Udienza Speciale concessa all’UCID il 31 ottobre 2015.
Sono quattro gli elementi che vanno sottolineati di questo passaggio: il ruolo centrale della vocazione (trascendenza e significato teologico) dell’imprenditore; la moltiplicazione dei beni di questo mondo; l’accessibilità dei beni per tutti; il bene comune. Si ribadiscono: la centralità dell’uomo nei processi di sviluppo (visione antropologica); la creazione della ricchezza; la distribuzione secondo principi di equità e di giustizia; della costruzione del bene comune.
Questa visione sociale di Papa Francesco supera alcune critiche mosse al Santo Padre di occuparsi solo della distribuzione della ricchezza e non anche della sua produzione per la costruzione del bene comune. Essa risulta intimamente legata all’insegnamento del Vangelo con la parabola dei talenti sulla moltiplicazione delle risorse ricevute (produttività) e con la parabola dei lavoratori della vigna che ricevono tutti un salario di un denaro per una vita dignitosa. Riceviamo in questo modo anche l’importante insegnamento che il primo fondamento della Dottrina Sociale della Chiesa lo troviamo nel Vangelo e poi nei Padri della Chiesa, prima ancora delle Encicliche sociali E’ utile poi ricordare che gran parte delle parabole del Vangelo si basa su esempi della vita economica e sociale.
Nella scienza economica, fin dal suo nascere, l’attenzione maggiore è stata rivolta alla fase della produzione della ricchezza. Pensiamo all’opera del padre fondatore dell’economia politica, Adamo Smith, dedicata alla natura e alle cause della ricchezza delle nazioni, alla teoria della produttività marginale, alla funzione di produzione di Wickesell – Cobb Douglas e così via. Occorre naturalmente ricordare che non è stato così per Ricardo che riteneva che la funzione fondamentale dell’economia era quella di studiare le cause che determinano la distribuzione del reddito tra i fattori della produzione. Dal suo pènsiero è partito quello di Marx con la teoria del valore lavoro. Il valore dei beni dipende dal lavoro, diretto e indiretto, incorporato nei beni e quindi tutto il prodotto dovrebbe andare al fattore lavoro altrimenti vi è sfruttamento da parte dei capitalisti ( plus valore).
Una visione equilibrata del lato della produzione e da quello della distribuzione della ricchezza l’hanno avuta gli esponenti della nostra grande scuola di economia aziendale. Citiamo per tutti Gino Zappa e Pietro Onida. Ecco le parole di Pietro Onida che si leggono nel Trattato di Economia d’Azienda: “L’accumulazione e, in particolare, la concentrata accumulazione di ricchezza, perseguita senza porre mente – in una specie di ottuso egoismo – ai problemi della distribuzione, lungi dal giovare allo sviluppo della produzione, può minare la prosperità e la stessa durevole esistenza dell’impresa”. E ancora “L’economia insegna invero che anche per le imprese – come per gli individui, le famiglie e le nazioni – la prosperità si conserva durevolmente, e si sviluppa, diffondendola presso gli altri, piuttosto che difendendola contro gli altri. Non dura a lungo la prosperità degl’individui, delle imprese e delle nazioni, costruita sulla miseria altrui. Le conclusioni dell’economia convergono, in questo, con le esigenze di una superiore etica sociale”.
Queste parole di Onida richiamano alla mente quelle del beato Giuseppe Toniolo che nel Trattato di Economia Sociale affermava che l’ordine sociale è superiore all’ordine economico. L’ordine spirituale supera quello sociale perché l’uomo è destinato ad una vita ultraterrena. E ancora che la massima espressione dell’etica è il bene comune. D’altra parte Onida, a nostra conoscenza, è il primo a parlare di bene comune nella tendenza a conciliare gli interessi degli azionisti, dei dipendenti e della clientela. Pertanto si ritiene che il primo nucleo di pensiero della responsabilità sociale dell’impresa appartenga alla scuola italiana di economia aziendale e non ad altri.
L’impresa quindi va vista non solo nel momento della produzione di ricchezza ma anche in quello fondamentale della distribuzione per il bene comune, compreso quello dell’azienda in un’ottica di lungo periodo. E a questo riguardo è interessante ricordare il caso della controversia negli anni venti tra Henry Ford e i fratelli Dodge. I Dodge erano stati i primi investitori della Ford Motor Company, ma dopo pochi anni non erano più soddisfatti dei dividendi corrisposti dall’azienda. Essi sostenevano che, in quanto azionisti, si meritavano una quota molto più alta in termini di utili. Henry Ford rispose a quest’accusa affermando che stava impiegando gli utili della società per assumere ancora più dipendenti, per diffondere i benefici di questo sistema industriale al maggior numero di persone, al fine di aiutarli a costruirsi una vita dignitosa e la casa. La Corte Suprema del Michigan decise a favore dei fratelli Dodge e la Ford fu condannata a pagare un altissimo dividendo ai suoi azionisti.
C’è da chiedersi se questa fondamentale attenzione da parte dell’imprenditore al momento della distribuzione del reddito debba concretizzarsi attraverso un aumento delle remunerazioni o attraverso una partecipazione agli utili, o altre forme partecipative come l’azionariato ai dipendenti o la partecipazione agli organi decisionali. Forse il mondo dell’impresa sta andando verso modelli più partecipativi e condivisi e meno contrattuali, come sono le remunerazioni ai dipendenti. E’ un segno, probabilmente, di un capitalismo che sta cambiando pelle, diventando più sociale e condiviso. Ma è presto per dirlo.
Sul piano economico generale, ci si sta rendendo sempre più conto che l’aumento delle disuguaglianze ci allontana pericolosamente dal bene comune e questo, come non si stanca mai di ripetere Papa Francesco, è fonte di violenze e di guerre. Più la distribuzione della ricchezza è squilibrata e meno si cresce: questa è la lezione dei fatti.
Oggi il problema maggiore, a livello mondiale, è rappresentato dalla distribuzione della reddito, per la costruzione del bene comune universale, come afferma il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa del 2004. Il problema della produzione è oggetto di molta più attenzione grazie allo strabiliante progresso della tecnica, come sottolinea Benedetto XVI nella Caritas in veritate (cap. sesto). Pensiamo solo agli effetti che avrà sulla produttività la quarta rivoluzione industriale di cui oggi molto si parla, ma di cui intravediamo solo le prime conseguenze (metodi di produzione digitali). La parabola dei talenti (produttività) sembra trovare più facile attuazione in questo mondo rispetto a quella dei lavoratori della vigna (salario solidale per la dignità della vita umana).

Dobbiamo raccogliere, come cristiani, la grande sfida lanciata da Papa Francesco per un mondo più giusto e solidale, soprattutto per i nostri giovani, speranza di un mondo migliore.