Nel 2016 le esportazioni del settore agroalimentare hanno mostrato una performance eccezionale. Esse sono state pari a 38,4 miliardi di euro, con un incremento del 4% rispetto all’anno precedente. Gran parte delle esportazioni sono dirette verso i Paesi dell’Unione Europea, ma anche verso gli Stati Uniti con una quota vicina al 10%.
Si tratta di un settore in cui è molto presente l’imprenditoria giovanile, con livelli di innovazione tecnologica molto elevata.
Se il nostro prodotto interno lordo crescesse ai ritmi delle esportazioni agroalimentari, il nostro tasso di crescita sarebbe il doppio, con tutte le conseguenze positive in termini di occupazione, di saldo positivo della bilancia commerciale, di rapporto tra deficit pubblico e PIL e di rapporto tra debito pubblico e PIL.
Su questo tema si invia la consueta scheda settimanale, ma questa volta predisposta dal Consorzio “Save Italy” sul tema di esportazioni dei prodotti agroalimentari “made in Italy”. La richiesta ci è pervenuta dal Presidente del Consorzio, Gabriele Felice.
Consorzio Save The Italy
Di Gabriele Felice
Record storico nelle esportazioni di prodotti agroalimentari Made in Italy sulla base dei dati Istat definitivi sul commercio estero che nel 2016 hanno raggiunto 38,4 miliardi di euro con una crescita del 4 per cento.
Quasi i due terzi delle esportazioni interessano i Paesi dell’Unione Europea, ma il Made in Italy a tavola continua a crescere su tutti i principali mercati, dal Nord America all’Asia fino all’Oceania.
Se continua a soffrire il Made in Italy in Russia per gli effetti dell’embargo, che tutti gli operatori sperano possa essere revocato con la nuova amministrazione Trump, gli Stati Uniti sono il principale mercato fuori dai confini dall’Unione con un valore dell’export record di 3,8 miliardi ed un aumento record del 6%.
Su questo risultato alcuni pensano che possa pesare la politica potenzialmente più protezionista del neopresidente degli Stati Uniti Donald Trump che potrebbe mettere a rischio un mercato così determinante.
Ma è una paura che noi del Consorzio SAVE ITALY riteniamo infondata visto che il neo eletto presidente si è più volto espresso contro il dumping di alcuni Paesi, in primis la Cina, e non è certo il caso dell’Italia i cui prodotti semmai completano e arricchiscono il mercato americano di prodotti di eccellenza assoluta.
Tra i prodotti che piacciono di più all’estero si conferma il vino con una crescita del 3% davanti all’ortofrutta fresca (+4%), ai formaggi (+7%), all’olio che fa segnare un +6%, ai salumi con un +8%, per non parlare del fenomeno birra artigianale che aumenta, udite udite, del 144%.
Analizzando i dati non mancano gli aspetti sorprendenti a partire del successo del vino in casa degli altri principali produttori, con gli acquisti che crescono in Francia (+5% e con un exploit dello spumante che fa addirittura segnare un incremento in doppia cifra, pari al +57%), Stati Uniti (+3%), Australia (+14%) e Spagna (+1%). Sempre i francesi gradiscono anche il formaggio italiano, le cui vendite sono cresciute dell’8%. In Cina vanno forte anche i nostri latticini (+34%) e la pasta che registra un +16%.
Tornando alla birra abbiamo un fenomeno nel fenomeno: la crescita nei paesi nordici, dalla Germania (+6%), alla Svezia (+7%), fino ai pub della Gran Bretagna (+3%), con un vero e proprio exploit nell’Irlanda della Guinness (+31%) e ottime performance anche nelle lontane Australia e Nuova Zelanda.
La nuova offerta artigianale Made in Italy è molto diversificata, basti pensare che solo 10 anni fa si contavano in poco più di una trentina di prodotti e oggi, invece, sono circa un migliaio per una produzione stimata di 45 milioni di litri. Si va dalla birra aromatizzata agli agrumi di Amalfi alla canapa, dall’acqua marina del Gargano fino a quella alle visciole o al radicchio rosso tardivo Igp o al riso.
Oltre a contribuire all’economia, è anche una forte spinta all’occupazione giovanile, dove i ragazzi sono più attivi. Il settore sta vivendo profonde innovazioni, come la certificazione dell’origine a km zero oppure la produzione di specialità altamente distintive.
Bene anche salumi e prosciutti che spopolano in terre di salsicce come la Germania (+9%).
E tutto questo grazie solo ed esclusivamente allo spirito imprenditoriale con la I maiuscola senza una catena di distribuzione internazionale e uno Stato capace di fare sistema, con le palle al piede di una burocrazia asfissiante ed un’Europa a legiferazione tedesca che continua a mettere divieti, paletti e misure. Ora se è vero come è vero che un’economia export oriented è un’economia fragile, come il caso del Brasile dimostra, perché dipendente dalle fluttuazioni di mercato e che imperativo categorico è quello di ricostituire la classe borghese, cosa sarebbe oggi il nostro PIL se avessimo un’organizzazione dello Stato non diciamo uguale ma almeno simile a quello francese nel quale i primi operatori commerciali per l’export sono i consolati e le ambasciate coadiuvati da catene di distribuzione come Auchan? A voi l’ardua sentenza.