TORINO, 29 Maggio 2017
Ringrazio S.E. Mons. Cesare Nosiglia, Arcivescovo di Torino, per la Sua presenza a questa nostra seconda giornata per un nuovo umanesimo. Grazie al Prof. Romano Molesti per l’idea delle Giornate del Nuovo Umanesimo, coinvolgendo l’UCID Nazionale il cui impegno è quello della testimonianza dei grandi valori della Dottrina Sociale della Chiesa, da parte degli imprenditori e dei dirigenti cristiani. Un caro saluto agli amici del Gruppo Regionale dell’UCID Piemonte e dell’UCID Torino che hanno raccolto l’invito a partecipare a questo incontro su Etica e finanza. Un grazie sentito a tutti i presenti.Il 20 gennaio scorso abbiamo celebrato ad Assisi l’inaugurazione delle Giornate del Nuovo Umanesimo, frutto della collaborazione tra la Fondazione Nazionale Studi Tonioliani e l’UCID Nazionale.
Siamo ora qui a Torino per celebrare la seconda Giornata, dedicata al tema dell’etica e della finanza. Un tema delicatissimo perché ha a che fare con la lunga crisi che abbiamo sperimentato per ben dieci anni e da cui ora stiamo uscendo con grande difficoltà, soprattutto per quanto riguarda il nostro Paese.
Partiamo da un’affermazione di principio che ricaviamo dalla grande Enciclica sociale di Benedetto XVI, Caritas in veritate. “L’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano”.La frase del Papa emerito ci riporta ad un’affermazione del grande scrittore russo F. Dostojeskij: “Senza Dio tutto è possibile”. Tutto è possibile nei confronti dell’uomo, distruggendo i suoi grandi e inalienabili valori di libertà, responsabilità, dignità, creatività.
Come ci ha insegnato Luigi Einaudi, la soluzione dei problemi economici non sta nell’area economica ma in quella della coscienza. L’UCID ogni tre anni presenta un Rapporto, voluto dal compianto Prof. Angelo Ferro, intitolato “La coscienza imprenditoriale nella costruzione del bene comune”. La coscienza retta porta l’imprenditore cristiano a lavorare in spirito di servizio per lo sviluppo e la costruzione del bene comune. Essa conduce alla verità, quella verità che ci fa liberi e che crea l’incontro con Dio. L’imprenditore cristiano deve mirare più in alto della semplice deontologia professionale, anche se questo sarebbe già un risultato, perché animato dall’etica delle virtù teologali e cardinali.
L’etica senza un fondamento trascendente è un’etica debole e può portare, come purtroppo stiamo vedendo, al riduzionismo economico e al relativismo etico che alla fine sono nemici dell’uomo. Lo aveva già messo in evidenza con grande incisività Giovanni Paolo II nella Laborem exercens del 1981 in cui si parlava del gravi rischi dell’economicismo.
Come ci ha insegnato San Benedetto 1500 anni fa il vero sviluppo per il bene comune poggia su tre grandi pilastri: la religione e la preghiera; la cultura; il progresso scientifico e tecnico. Paolo VI parlava della croce, del libro e dell’aratro.
San Benedetto può essere definito un imprenditore innovatore che è profondamente diverso dal manager e dall’uomo d’affari. Il concetto di imprenditore innovatore lo troviamo sviluppato in modo esemplare nella Teoria dello sviluppo economico di Schumpeter del 1911. Per Schumpeter, ma molto prima per San Benedetto, il progresso scientifico e tecnico è il motore dello sviluppo economico. A questo riguardo, non possiamo non citare il bellissimo capitolo VI della Caritas in veritate di Benedetto XVI, dedicato allo sviluppo dei popoli e la tecnica. Ma tra le condizioni poste da Schumpeter per lo sviluppo ne troviamo una che è fondamentale per il nostri fini: il ruolo delle banche che consentono, attraverso la creazione del credito, la trasformazione delle innovazioni in prodotti e servizi per il mercato.
Quindi il credito e la finanza come fattori fondamentali per il sostegno dello sviluppo e la costruzione del bene comune. Si tratta pertanto di una gerarchia di valori che non deve essere sovvertita, come è avvenuto invece con la grande crisi partita nel 2007-2008. Prevale purtroppo l’idea dell’industria finanziaria che cerca al suo interno la strada per la massimizzazione dei profitti nel breve periodo. La finanza viene vista come cervello dell’economia che può controllare tutto e tutti, compresa la politica, favorita dal largo impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e dalla globalizzazione. La globalizzazione dei mercati finanziari e la spettacolare potenza pervasiva delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione riducono il peso dello spazio, ma non quello del tempo e dell’incertezza. Come afferma Papa Francesco nella Evangelii gaudium del 2013, il tempo è superiore allo spazio.
Quando le banche e la finanza prendono il sopravvento sull’economia reale sorge un problema etico perché la finanza mira alla massimizzazione del profitto nel breve e nel brevissimo periodo e perché essa è dominata dalla mentalità dei manager che sono profondamente diversi dai veri imprenditori che mirano alla sostenibilità dell’impresa nel lungo periodo. Di fronte a questa deprecabile situazione, Papa Francesco nella Evangelii gaudium dice, con grande energia, no ad un denaro che governa invece di servire. In questo modo la finanza non svolge più, come ci ricorda Benedetto XVI, la funzione di ponte tra il presente e il futuro e quindi di sostegno allo sviluppo nel lungo periodo per la costruzione del bene comune.
Come ci ricorda il premio Nobel Stiglitz, la massimizzazione del profitto solo in casi estremi porta all’efficienza economica e al benessere generale.
Le banche e la finanza sono etiche quando svolgono la funzione di sostegno allo sviluppo nel lungo periodo e alla costruzione del bene comune. In questi ultimi dieci anni abbiamo assistito ad una caduta del tasso di crescita e di sviluppo dell’economia globale e ad un ampliamento delle disuguaglianze. Banche e finanza non hanno tenuto un comportamento etico la cui massima espressione è il bene comune. Bene comune che è bene di tutti e di ciascuno e che è diverso dall’ottimo paretiano. L’ottimo paretiano si ha quando non è più possibile migliorare la situazione di coloro che stanno bene senza peggiorare la situazione di coloro che stanno male. L’ottimo paretiano si basa su un principio di tipo additivo per cui è importante massimizzare la somma della ricchezza, senza preoccuparci di quelli che stanno a zero e della giustizia distributiva. Il bene comune si basa invece su un principio di tipo moltiplicativo, per cui tutti devono partecipare, sia pure in misura diversa, ai benefici del processo di sviluppo. Se una sola persona sta a zero azzera tutto il prodotto e non si realizza il bene comune. E ciò perché ogni persona è fatta ad immagine e somiglianza di Dio Padre e tutti siamo fratelli ed eredi della terra e dei suoi frutti.
Storicamente quando le banche e la finanza non hanno tenuto un comportamento etico sono sorte iniziative di grande importanza da parte di grandi uomini, ispirati dal messaggio evangelico dell’amore verso Dio e verso il prossimo. Pensiamo ai monti di pietà e ai monti frumentari del 1500 e ai nomi di Sant’ Antonino da Firenze, di San Bernardino da Siena, del Beato Bernardino da Feltre. E ancora nel nostro 1800 la nascita delle numerosissime casse rurali e artigiane e molte altre iniziative di cooperazione, sotto la spinta della prima grande Enciclica sociale di Leone XIII del 1891, Rerum novarum. Si tratta della testimonianza dei valori della sussidiarietà e della solidarietà, pilastri della Dottrina Sociale della Chiesa.
Tutto nasce dalla frattura tra etica ed economia e, possiamo dire ai nostri fini, tra etica e finanza. Con la nascita della scienza economica con Adam Smith ciò non avveniva e dobbiamo ricordare che egli era docente a Glasgow di filosofia morale. La frattura si materializza negli anni trenta con gli anni della grande teoria come li ha definiti J. Hicks. A questo riguardo, nel 1932 L. Robbins scrive un importante saggio intitolato “Un contributo sulla natura e il significato della scienza economica” in cui viene formalizzata questa frattura. Stranamente, l’anno prima, nel 1931, Pio XI aveva pubblicato la grande Enciclica sociale Quadragesimo anno in cui si condannava la netta separazione tra etica ed economia. Pio XI si scaglia anche contro la “finanza predatoria” di quegli anni di grave crisi economica mondiale. Ecco le sue parole: “Ciò che ferisce gli occhi ai nostri tempi non vi è solo la concentrazione di ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento”.
Nel parlare di etica e finanza, dobbiamo distinguere tra manager e imprenditore innovatore. Le differenze tra le due figure sono molte e qui vengono ricordate le principali. L’imprenditore innovatore è un homo faber che continua l’opera creatrice di Dio. E’ un generalista sostenuto da una larga visione culturale, dall’etica e, nel caso degli imprenditori cristiani, dalla Fede. Ha una visione di lungo periodo dell’impresa mirando alla sua sostenibilità e vede il profitto non come obiettivo da massimizzare ma come strumento per sostenere l’accumulazione e lo sviluppo dell’impresa nel lungo periodo.
Il manager è invece un homo fabricatus nelle grandi scuole di management di tutto il mondo nell’era della globalizzazione. E’ uno specialista e conosce tutti gli strumenti analitici più sofisticati per massimizzare i profitti da cui trae vantaggi per sé attraverso, ad esempio, i meccanismi di stock option. Ha una visione di breve termine dell’azienda che controlla con strumenti sempre più sofisticati e ravvicinati sul piano temporale come i report trimestrali e addirittura mensili.
La crisi profonda che viviamo, con una visione della finanza come cervello dell’economia, dipende senz’altro dal predominio dei manager sugli imprenditori innovatori. Questo è avvenuto soprattutto nel campo dell’industria finanziaria e del mondo bancario nell’era digitale e della globalizzazione. .
La problematica si è riflessa sulla proprietà e il controllo delle imprese. La proprietà è diventata sempre più debole nel fare valere una visione etica di lungo periodo della sostenibilità dell’impresa, lasciando il potere in mano ai manager fabbricati nelle scuole di direzione aziendale. L’esempio tipico è quello della public company in cui tanti sono proprietari ma nessuno dà gli indirizzi strategici di lungo periodo, lasciando il campo libero ai manager che hanno una visione di corto respiro.
In definitiva, la finanza è etica quando è a sostegno dello sviluppo per la costruzione del bene comune. Diversamente la finanza non è etica e i due mondi sono separati e totalmente indipendenti, con gravi danni per la persona umana. Si tratta del grave errore messo in evidenza con incisività da Pio XI nella Quadragesimo anno. L’etica deve essere interna alla finanza, così come all’economia, nei suoi processi produttivi e gestionali, altrimenti ci troviamo di fronte ad una mera filantropia. Si tratta di un punto messo in evidenza con grande lucidità dal beato Giuseppe Toniolo, ricordando che la massima espressione dell’etica è il bene comune.
Celebriamo quest’anno l’anniversario dei 50 anni della grande Enciclica sociale di Paolo VI, Populorum progressio. Nell’Enciclica si legge che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace” e gli fa eco 20 anni dopo Giovanni Paolo II con la Sollicituto rei socialis del 1987, introducendo la differenza tra crescita quantitativa della ricchezza e sviluppo che riguarda la pienezza dell’essere umano. Si delinea in questo modo con chiarezza la natura morale del vero sviluppo, fondamento di un nuovo umanesimo.
Senza etica non c’è vero sviluppo e non c’è bene comune, allontanandoci da quello sviluppo umano integrale di cui parla Benedetto XI nella Caritas in veritate e dalla cultura dell’ecologia integrale su cui ci esorta Papa Francesco nella Laudato si’.