“Industria 4.0 e lavoro” peraltro capitolo XXVI del libro: “Il Salvadanaio. Manuale di sopravvivenza economica” del Senatore Pedrizzi
CAPITOLO XXVI: Industria 4.0 e lavoro
Industria 4.0 troppo spesso viene affrontata unicamente dal punto di vista delle novità tecnologiche e della politica industriale, nonostante che, a differenza delle precedenti rivoluzioni industriali, nelle quali le tecnologie si affiancavano all’uomo per migliorare e rendere più produttive le sue prestazioni, si proponga come modello di società. Questo ultimo cambiamento tecnologico, infatti, va ad influire sui rapporti sociali ed economici, cambia completamente i modelli di business e la qualità della vita delle persone, i rapporti tra imprese e consumatore ed utente finale, come tra lavoratori e processi produttivi, tra tempi di lavoro e tempo libero; insomma modifica la vita di ciascuno di noi e delle nostre famiglie.
Situazioni e problemi più o meno analoghi, salvo la specificità delle nuove tecnologie, peraltro sono stati sempre oggetto dell’attenzione della Chiesa, che ha guardato con materna sollecitudine ai problemi sociali ed alle questioni che di tempo in tempo si presentavano nell’ambito della vita degli uomini.
Dalla “Rerum Novarum”, nel 1891, con la quale Leone XIII, affrontava proprio la questione sociale, denunciava la sfruttamento dei lavoratori, il lavoro minorile, i tempi del lavoro, il clima invivibile delle fabbriche, il liberalismo ed il socialismo, affermando con forza che il lavoro non è una merce, alla “Quadragesimo Anno”, con la quale Pio XI affrontava, con una intuizione profetica, i nuovi problemi della finanziarizzazione dell’economia, dopo la grande crisi del 1929; indicava la strada della collaborazione tra capitale e lavoro e denunciava un capitalismo senza volto e senza bandiera con la nascita delle società anonime.
Dalla “Centesimus Annus” di Giovanni Paolo II che, dopo aver dato uno sguardo al secolo trascorso, faceva una panoramica sugli scenari contemporanei alla luce del crollo del socialismo reale ed indicava la strada per il futuro che non poteva essere rappresentato dal capitalismo occidentale cosi come si andava prospettando, alla “Caritas in veritate” di Benedetto XVI che oltre ad essere una summa teologica è, come definì qualcuno l’enciclica, il più bel trattato di economia degli ultimi anni che della più grande crisi del dopoguerra individuava la genesi ed indicava le soluzioni e le direttrici di marcia per una nuova antropologia ed una nuova ecologia umana.
Dalla “Evangelium Gaudium” in cui papa Francesco, riprendendo la enciclica “Laborem Exercens” di Giovanni Paolo II, afferma che il lavoro è quella attività in cui “l’essere umano esprime ed accresce la dignità della propria vita e che il giusto salario permette l’accesso adeguato agli altri beni che sono destinati all’uso comune, fino ad arrivare al discorso che il Santo Padre ha fatto ai cantieri dell’ILVA, a Genova, il 27 maggio scorso, affrontando in particolare il grave problema italiano della disoccupazione: “Chi perde il lavoro e non riesce a trovare un altro buon lavoro, sente che perde la dignità, come perde la dignità chi è costretto per necessità ad accettare lavori cattivi e sbagliati”…. è anche cattivo “il lavoro di chi è pagato molto perché non abbia orari, limiti, confini tra lavoro e vita perché il lavoro diventi tutta la vita”.
Come si vede, noi, dico noi cattolici, ma anche noi italiani siamo figli di una storia da sempre attenta al lavoro ed ai suoi problemi, per questo anche la 48° Settimana Sociale, che si è svolta a Cagliari ad ottobre dello scorso anno (2017), ha avuto proprio come tema “Il lavoro che vogliamo, libero, creativo, partecipativo, solidale”.
Oggi le grandi fabbriche stanno eliminando le catene di montaggio e le sostituiscono con “isole” autonome dove convivono uomini e macchine, team di lavoratori e robot. Le piccole imprese accentuano invece una caratteristica tutta italiana della divisione del lavoro e si adoperano per far convivere abilità artigianali classiche con quelle digitali.
E’ una rivoluzione, quindi, che ha come caratteristica principale quella della scomparsa dei confini, siano essi temporali, geografici, settoriali. Le mura fisiche della stessa impresa non esistono più. Con la possibilità di contatto tra spazi e mondi prima nettamente separati e distanti.
Questo “terremoto” avviene da noi in un particolare momento di debolezza, infatti registriamo un tasso di occupazione che è tra i più bassi del continente e quello di disoccupazione tra i più alti, a cui si aggiunge la percentuale di inattivi. Solo un terzo della popolazione italiana, in sostanza, risulta occupata, per cui in media ogni occupato mantiene se stesso e altri due persone.
Peraltro la crescita degli occupati negli ultimi anni si concentra soprattutto in lavori a basso valore aggiunto e bassa produttività.
Vi è poi il tema dell’invecchiamento medio della popolazione (cfr. dati OCSE: Il nostro Paese al momento ha 38 persone sopra i 65 anni ogni 100 in età da lavoro (20-64 anni) a fronte delle 28 della media Ocse. Nel 2050 saranno 74 contro 53 della media Ocse, portando l’Italia al terzo posto tra i Paesi più vecchi.) e quello demografico nei confronti del quale la politica appare del tutto insensibile ed indifferente.
La trasformazione di Industria 4.0 si innesta, inoltre, nel nostro Paese, in uno scenario socio-economico squilibrato e nel quale quindi possono ulteriormente accentuarsi le tendenze ovunque presenti alla ulteriore polarizzazione delle competenze, dei redditi e dei territori. Ne sono conseguenza le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza, la diffusa paralisi della mobilità sociale e l’incremento della povertà assoluta. (cfr. le differenze di retribuzioni tra amministratori e dipendenti della stessa azienda).
Un recente report della società di analisi statunitense Equilar 2000 “Highest-paid ceo ranking”, pubblicato dal New York Times, ha calcolato che per raggiungere i compensi dei manager un dipendente deve lavorare in media 275 anni. Come nel caso di Walmart, dove gli stipendi medi si aggirano sui 19.177 dollari l’anno e si confrontano con il guadagno del ceo, Doug McMillon, pari a 22,2 milioni di dollari. Oppure Live Nation Entertainment dove la paga media è di 24.406 dollari e il ceo arriva a guadagnare 70,6 milioni di dollari. La dislocazione delle produzioni nei paesi in via di sviluppo allarga la forbice. Mattel, ad esempio, produce molti dei suoi giocattoli in Asia dove gli stipendi sono ancora più bassi e il ceo arriva ad incassare 4.987 volta la media dei suoi dipendenti. Oltretutto la disuguaglianza nei salari durante la vita lavorativa si trasformerà in disuguaglianza tra i pensionati. Alle persone con bassi livelli di istruzione, e sopratutto alle donne, sarà difficile assicurare una pensione “adeguata”. L’unico modo per uscire da questo vicolo cieco, secondo l’Ocse, è rafforzare i servizi all’infanzia, per dare alle donne la possibilità di lavorare.
Ancora l’Ocse ha documentato che la distribuzione del reddito tra capitale e lavoro è peggiorato radicalmente. I redditi da lavoro, anzi le condizioni del lavoro, regrediscono ed accentuano le disuguaglianze di reddito, ricchezza, potere economico, mediatico, culturale e politico. Per non parlare della tassazione che è molto più gravosa sul lavoro che sul capitale. Le ragioni sono molteplici: l’integrazione globale dei mercati, in particolare lo smantellamento di ogni controllo dei movimenti di capitale, senza standard democratici minimi sia sul versante sociale che ambientale. Il capitale fa shopping globale delle condizioni di lavoro, condizionando la politica e le organizzazioni del lavoro; entrano, così, sulla scena globale, masse enormi di lavoratori di riserva, un miliardo di uomini e donne affamati dalla Cina, dall’India, dal Sud-east asiatico, dal Brasile; si verifica la drammatica asimmetria nei rapporti di forza tra capitale e lavoro come mai prima nel corso del “secolo breve”. Da un lato, il capitale, a caccia di lavoro low cost nelle sterminate praterie dell’economia globale. Dall’altro, il lavoro, regolato nella dimensione locale della politica e del sindacato, sempre più svalutato.
A ciò si aggiungono in Italia la storica polarizzazione territoriale tra Nord e Sud, un certo differenziale di dinamismo tra la fascia adriatica e quella tirrenica, alcune pericolose tendenze alla desertificazione di aree montane.
Recentemente è emersa anche la nuova forma di sfruttamento che è quella del lavoro gratuito. Essa si va affermando in quelle imprese che ricorrono sistematicamente a tirocini lontani dai percorsi curricolari e in quelle istituzioni che mettono a gara prestazioni professionali senza remunerazione. Ciò deriva dalla debolezza di molti contraenti, soprattutto giovani, portati ad accettare la gratuità pur di accumulare esperienza, da poter esibire nei curricula.
Uno dei maggiori impatti della Quarta rivoluzione industriale sul mercato del lavoro sarà quindi quello relativo ai nuovi fabbisogni di competenze e quindi alla preparazione dei lavoratori.
Il riferimento è sia alle competenze di tipo tecnico-specialistico, che ruotano principalmente intorno alla componente digitale applicata ai processi di produzione, sia alle competenze trasversali (soft skills) che possono consentire ai lavoratori un miglior approccio a scenari mutevoli e complessi.
Per questo emerge la necessità, prima di affrontare le sfide “alte” che Industria 4.0 ci pone, di riflettere sul sistema educativo e sulle iniziative di ri-alfabetizzazione degli adulti, onde evitare il rischio di divario strutturale tra velocità del cambiamento e velocità dell’apprendimento. Alla base di ciò rimane l’obiettivo di un drastico incremento del numero dei laureati.
Si tratta quindi di ri-orientare il sistema educativo non solo verso gli immediati fabbisogni delle imprese, ma sopratutto in direzione di una formazione critica e dotata di strumenti per adattarsi ai continui cambiamenti.
Si tratta di riqualificare i percorsi di istruzione tecnica. Troppo spesso ancora oggi, pur a fronte di una elevata domanda da parte del mercato del lavoro, l’opzione “formazione tecnica” appare una seconda scelta. Al contrario, il ripensamento di questi percorsi formativi, anche rafforzati da poderose conoscenze di base, può contribuire a rinverdire la grande tradizione industriale italiana.
Il numero dei contratti a termine è cresciuto ampiamente a partire dai primi anni 2000. A ciò si aggiunge come negli ultimi anni si sia ridotta considerevolmente anche la durata media dei contratti a tempo indeterminato. Se nel 1995 il 29 per cento dei lavoratori tra i 25 e i 39 anni aveva un tempo di permanenza media in un posto di lavoro superiore ai 10 anni, nel 2015 questa percentuale si è ridotta al 18 per cento.
I vecchi modelli di politiche del lavoro erano concepiti per un mercato tendenzialmente stabile nel quale il passaggio tra un posto di lavoro e l’altro era un fenomeno straordinario; per questo si ispiravano alla logica emergenziale del soccorso nel momento della perdita del lavoro. Nei nuovi mercati della transizione continua occorrono invece istituzioni pubbliche, private e privato-sociali capaci di offrire sempre molteplici opportunità di apprendimento e di evoluzione delle abilità.
Sono infatti elementi intrinseci al fenomeno di Industria 4.0 la riduzione dei cicli di vita dei prodotti, la breve durata e l’intercambiabilità tra i modelli di business, lo sviluppo di reti di imprese, la diffusione di modelli di open innovation e altro ancora.
Il rischio principale è che i lavoratori non riescano a muoversi al ritmo del mercato, la sfida dunque non è quella di inseguire il mercato, ma è quella di costruire un nuovo modello di mercato non lasciato a se stesso, ma inserito in un quadro giuridico di riferimento, un mercato del lavoro inclusivo, perché potenzialmente in grado di offrire opportunità a tutti. Al centro di esso si deve porre la persona, non solo in quanto lavoratore, ma integralmente intesa nella sua capacità di iniziativa e di relazioni all’interno dell’intera società.
Gli strumenti che possono realizzare concretamente la centralità della domanda, sono le borse di studio per i giovani, la totale deducibilità delle spese per autoformazione per gli autonomi, il credito d’imposta per la formazione aziendale, l’assegno di ricollocazione (purché sistemico) per i disoccupati e gli inoccupati, i prestiti d’onore.
Il nuovo mercato inclusivo del lavoro deve essere costituito dalle scuole, dalle università, dalle imprese, dalle parti sociali e dai loro strumenti bilaterali, dagli ordini professionali e dalle loro Casse previdenziali, dalle amministrazioni locali oltre che dai servizi per il lavoro pubblici e privati. Dunque bisogna rivitalizzare tutti i corpi sociali intermedi, rilanciando il metodo della mediazione sociale.
Il lavoro sta cambiando e cambierà lungo direzioni difficili da codificare attraverso il rigido strumento legislativo. La fonte legislativa nel suo lento adattamento e nella sua rigida omogeneità dovrebbe per questo lasciare ai duttili contratti la specifica regolazione degli interessi reciproci per obiettivi comuni quali la crescita della produttività, delle competenze, dei salari. Leggi e contratti devono in ogni caso non solo garantire standard retributivi minimi per ogni prestazione lavorativa, tanto dipendente che indipendente, quanto condizioni di vita e di lavoro sempre più umane.
La partecipazione dei lavoratori ai destini dell’impresa si deve fare cultura comune e si deve sostanziare innanzitutto nel fondamentale diritto a conoscere e ad apprendere nella concreta situazione di lavoro.
Merita perciò un rinnovato impulso il tema del coinvolgimento dei lavoratori nella vita delle imprese attraverso le molte forme di partecipazione già sperimentate e ulteriormente mutuabili dalle buone pratiche di altre società industrializzate in funzione del perseguimento di obiettivi sempre più condivisi. E’ la strada della partecipazione agli utili ed alla gestione dell’impresa, prevista oltretutto in articoli della nostra dalla nostra Costituzione rimasti del tutto inapplicati. (Ad esempio l’art. n.46).
Confini temporali
Nel Novecento industriale il tempo di lavoro, così come il luogo, erano dimensioni eterodirette. Il tempo di lavoro era il parametro mediante il quale si giungeva a stabilire il salario. La giornata suddivisa in tre blocchi di otto ore è oggi in molte professioni, anche tra coloro che lavorano nei settori più tradizionali, un modello obsoleto. Oggi il tempo di lavoro definito “poroso” spesso si sovrappone agli altri tempi di vita.
Si deve tuttavia considerare anche la sostenibilità in termini personali, familiari e sociali di una connessione costante con gli strumenti di lavoro assicurando il diritto del lavoratore a poter “staccare” dal lavoro anche in termini immateriali.
Le regole, espressione della flessibile fonte contrattuale, non sono in grado di liberarlo dal desiderio di perseguire senza tregua un risultato sulla base del quale sarà giudicato e remunerato. Si tratta di una questione antropologica che punti ad un uomo integrale dotato di quei principi che danno valore ad una vita buona in quanto equilibrata tra lavoro, affetti e riposo. Si ripropone ancora una volta il tema della formazione morale.
La questione geografica
C’è il rischio poi di un nuovo urbanesimo con la fuga dalle campagne. La dimensione metropolitana acquista così a tutti i livelli una nuova centralità e genera nuovi processi di urbanizzazione digitale, come mostrano i casi di San Francisco o di Seattle, ma anche di Milano in Italia. La dimensione geografica risulta, quindi, particolarmente importante se analizzata dal punto di vista della densità di conoscenza, e non solo dalla densità di popolazione.
La questione demografica
L’invecchiamento dei lavoratori implicherà anche un ripensamento dell’organizzazione del lavoro e soprattutto delle mansioni nell’ottica di un adattamento alla capacità fisica. Da questo punto di vista non sono da sottovalutare le potenzialità delle tecnologie. Occorrerà un’educazione programmata e permanente.
Alla luce dei cambiamenti demografici, della competizione internazionale e della riduzione dei cicli di vita dei prodotti, della mobilità professionale, la sfida principale allora diventa la costruzione di un nuovo modello di protezione e di sicurezza di ciascuna persona.
Le combinazione del pilastro obbligatorio con un secondo pilastro collettivo, di fonte negoziale in grado di integrare previdenza, sanità e assistenza, per proteggere dalla culla alla tomba gli iscritti, può rispondere a ciascuno in ogni fase della vita.
Dobbiamo proporci, in particolare, una diffusione capillare dei servizi di assistenza e sostegno e una forte accelerazione dei tempi di riconversione delle persone coinvolte nel cambiamento.
In conclusione:
La “nuova questione sociale”, va affrontata da una parte, andando “oltre” il paradigma liberista ed assumendo una concezione radicalmente alternativa dell’uomo, inteso non più come individuo, di memoria illuministica, atomo isolato, ma come persona e, in particolare, persona inserita in una storia, in corpi sociali intermedi, e che anche quando lavora è definita nella sua identità attraverso le relazioni con gli altri e radicato sul territorio.
L’uomo moderno è stato identificato con la figura dell’homo oeconomicus. La persona, al contrario, è sostanzialmente homo politicus. Andare oltre il paradigma liberista vuol dire anche rivedere il primato assoluto attribuito al cittadino-consumatore. Si consuma sempre più, per sostenere la produzione, non si produce per rispondere ai bisogni.
Dall’altra parte, anche per la tradizione socialista, socialdemocratica, laburista e comunista italiana del movimento operaio, la persona viene del tutto annullata essendo la “classe operaia”, l’“operaio massa”, l’aggregato sociale il suo principale riferimento. A differenza del paradigma liberista e socialista per il pensiero sociale della Chiesa quel che conta è “il primato dell’uomo sul lavoro e il primato del lavoro sul capitale”.
“Com’è noto – scriveva il cardinale Bagnasco qualche anno fa – l’errore fondamentale del socialismo non è stato innanzitutto di carattere economico, ma antropologico. Non è stata la decrepitezza economica o una modernizzazione ritardata ad essere la causa primaria della sua fine, ma la negazione della verità sull’uomo. Questo errore genetico del socialismo è proprio anche del consumismo e quindi della nostra civiltà, che sembra essere malata di questo morbo che, se non corretto, la porta alla decadenza”.
Insomma sia nel modello liberista che in quello socialista l’uomo viene ridotto ad una serie di relazioni economiche e la persona scompare come soggetto autonomo di decisioni morali.