La stampa è intervenuta diverse volte su cosa pensa Papa Francesco del capitalismo. Sul tema del capitalismo, Papa Francesco è intervenuto recentemente in occasione dell’Udienza Speciale concessa dal Movimento dei Focolari (Economia di Comunione) in Aula Paolo VI il 4 febbraio 2017.
In un passaggio del suo discorso, Papa Francesco esplicitamente afferma che “Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione”.
Scopo di questa scheda è di offrire alcuni riflessioni sul capitalismo e sull’etica del profitto, alla luce dei grandi insegnamenti della Dottrina Sociale della Chiesa.
Ecco le nostre semplici riflessioni. Non esiste oggi un solo tipo di capitalismo, ma almeno due con continue evoluzioni. Il primo può essere definito “capitalismo imprenditoriale sociale”, che è proprio degli imprenditori che hanno forte la coscienza della responsabilità sociale dell’impresa. Noi all’Ucid parliamo di Strategie d’Impresa per il Bene Comune (SIBC). Esiste poi il capitalismo manageriale che si è fuso con quello finanziario, generando la grande crisi che è iniziata nel 2007/2008. Il primo capitalismo si riferisce ad un imprenditore come homo faber che guarda al bene e alla sostenibilità dell’impresa nel lungo periodo, a favore di tutti gli stakeholder (dipendenti, comunità locali, istituzioni locali, clienti, fornitori, ambiente, azionisti). Il secondo tipo di capitalismo ha invece una visione di breve periodo e mira alla massimizzazione del profitto. E’ la visione di una finanza “cervello dell’economia” che comanda tutto e tutti. Contro questo tipo di capitalismo si è più volte espresso Papa Francesco con il suo no ad un denaro che governa invece di servire.
Il capitalismo manageriale poggia sulla figura del manager, homo fabricatus nelle scuole di direzione aziendale di tutto il mondo. Il manager è uno specialista, mentre l’imprenditore è un generalista che ha la capacità di vedere le grandi traiettorie dello sviluppo. In una visione evolutiva del capitalismo, il manager può essere visto come il collaboratore principale dell’imprenditore sociale, e a quest’ultimo l’individuazione delle strategie aziendali nel lungo periodo. Il manager le deve attuare. La prossima fase del capitalismo potrebbe essere proprio questa, come sostengono Porter e Kramer in un famoso articolo del 2011 quando parlano di creazione di valore condiviso.
Non tutto il capitalismo conosce solo la filantropia che significa compiere dei gesti di carità (le briciole) con i profitti dell’impresa, leciti o illeciti. Ma esiste anche l’impresa eticamente responsabile nel lungo periodo, con un’etica che non è esterna all’impresa ma interna riguardando i suoi processi organizzativi e gestionali. Troviamo questa visione in Giuseppe Toniolo che discusse proprio su questi temi la sua dissertazione di laurea all’Università di Padova alla fine dell’ottocento. Lo dice in termini chiari ed efficaci Papa Benedetto XVI in sua intervista del 2009: “Mi sembra realmente visibile, oggi, che l’etica non è qualcosa di esteriore all’economia, la quale come una tecnica potrebbe funzionare da sé, ma è un principio interiore dell’economia, la quale non funziona se non tiene conto dei valori umani della solidarietà, delle responsabilità reciproche e se non integra l’etica nella costruzione dell’economia stessa: è la grande sfida di questo momento”. Sempre ricordando il pensiero di Toniolo: la massima espressione dell’etica è il bene comune, che è bene di tutti e di ciascuno. E il bene comune è l’obiettivo finale della Dottrina Sociale della Chiesa, realizzato attraverso la declinazione dei grandi valori dello sviluppo, della solidarietà, della sussidiarietà, della destinazione universale dei beni.
E veniamo al punto rigurdante il profitto e la sua funzione. La massimizzazione del profitto porta solo in casi rari all’efficienza economica e al benessere generale. Lo ha dimostrato il Premio Nobel per l’Economia J. Stigliz, perché i mercati non sono omogenei ed esistono le asimmetrie informative. Ma il giusto profitto è necessario per lo sviluppo e il bene comune. Nella Centesimus annus del 1991, Giovanni Paolo II afferma che “Quando un’azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati”. Ma aggiunge: “E’ possibile che i conti economici siano in ordine ed insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell’azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità”. E ancora, sul capitalismo Giovanni Paolo II afferma. “ Se con capitalismo si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di economia d’impresa, o di economia di mercato, o semplicemente di economia libera. Ma se con capitalismo si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrato in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa”.
Sul tema del rapporto tra etica ed impresa e della discriminante del profitto, appare interessante ricordare anche le stimolanti considerazioni di Benedetto XVI nella Caritas in veritate: “Considerando le tematiche relative al rapporto tra impresa ed etica, nonché l’evoluzione che il sistema produttivo sta compiendo, sembra che la distinzione finora invalsa tra imprese finalizzate al profitto (profit) e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit) non sia più in grado di dar conto completo della realtà, nè di orientare efficacemente il futuro. Non si tratta solo di un terzo settore, ma di una nuova ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare tonalità umane e sociali”.
Il profitto nella Dottrina Sociale della Chiesa è uno strumento per favorire l’accumulazione, lo sviluppo, l’occupazione e quindi il raggiungimento dell’obiettivo finale rappresentato dal bene comune. Si tratta di una specie di pentagono che parte dal giusto profitto per arrivare al bene comune e ripartire dal bene comune (creazione di valore condiviso) per favorire il giusto profitto. In questo modo il profitto diventa etico perché consente di realizzare il bene comune.
La visione che abbiamo descritto ci induce a non condividere i fondamenti della cosiddetta “economia di comunione”.Anzi, ci sembra di poter affermare che l’economia di comunione toglie ossigeno allo sviluppo e alla costruzione del bene comune.