Il 20 maggio scorso si è svolta a Roma, presso l’Ateneo Pontificio Sant’Anselmo, la presentazione del libro di Alessandro Paglia “Il monastero come azienda”. Alla presentazione ha partecipato il sottoscritto in rappresentanza di UCID Nazionale.
Il volume rappresenta una chiave di lettura molto originale della regola di San Benedetto, alla luce delle varie teorie sulle strategie aziendali e manageriali, con l’impiego di metodi quantitativi matematici.
Per noi dell’Ucid la pubblicazione ha un significato speciale perché la nascita della nostra associazione, all’indomani della seconda guerra mondiale, è stata fortemente voluta e sostenuta dal Cardinale Schuster di Milano e dal Cardinale Siri di Genova, per dare un ordine morale alla ricostruzione e allo sviluppo del nostro Paese, alla luce dei grandi principi della Dottrina Sociale della Chiesa. Il Cardinale Schuster è stato un grande benedettino e quindi possiamo immaginare che nel sostenere la nascita dell’Ucid abbia pensato a San Benedetto come imprenditore innovatore per il bene comune come modello per la nascente associazione di imprenditori e dirigenti cristiani.
La Regola di San Benedetto è composta da 73 capitoli, che corrispondono al numero dei libri della Bibbia: 46 il Vecchio Testamento e 27 il Nuovo. Con questo San Benedetto ci fa capire che la Regola è fondata sulla parola del Signore, con il Nuovo Testamento che ha lo scopo non di abolire ma di perfezionare.
I fondamenti del monachesimo benedettino sono tre: la religione, la cultura e il progresso scientifico e tecnico. Paolo VI li aveva sintetizzati nella croce, nel libro e nell’aratro. Senza Dio, come ci ricorda Dostojeskij, tutto è possibile e la soluzione dei problemi economici non sta nell’area economica (Luigi Einaudi), ma nella coscienza che porta alla verità.
Le biblioteche sono gli strumenti che trasmettono la cultura, anche quella antica che altrimenti andrebbe perduta con grave danno per la memoria e l’identità. San Benedetto raccoglie e trasmette la cultura antica salvaguardandola dalle nefaste conseguenze della caduta dell’impero romano di occidente.
Il terzo pilastro è rappresentato dal progresso tecnico che è il motore dello sviluppo economico. I monasteri benedettini sono fucine di progresso scientifico e tecnico: nuovi modi di lavorare la terra con aumenti di produttività, molini per la trasformazione del grano e per la produzione dell’olio. E ancora, fabbriche per la produzione della birra, aziende enologiche e per la produzione dei liquori, prodotti medicinali basati sulle erbe e farmacie e così via.
San Benedetto è un imprenditore innovatore nel senso di Schumpeter perché le sue innovazioni riguardano non solo i processi produttivi e i prodotti, ma anche i modelli organizzativi dell’azienda, i nuovi metodi di trasporto, i nuovi mercati e così via (innovazione in senso lato).
San Benedetto non è un manager ma un imprenditore innovatore. Le differenze tra le due figure sono molte e qui vengono ricordate le principali. L’imprenditore innovatore è un homo faber che continua l’opera creatrice di Dio. E’ un generalista sostenuto da una larga visione culturale e dalla Fede. Ha una visione di lungo periodo dell’impresa mirando alla sua sostenibilità e vede il profitto non come obiettivo ma come strumento per sostenere l’accumulazione e lo sviluppo dell’impresa nel lungo periodo.
Il manager è invece un homo fabricatus nelle grandi scuole di management di tutto il mondo nell’era della globalizzazione. E’ uno specialista e conosce tutti gli strumenti analitici più sofisticati per massimizzare i profitti da cui trae vantaggi per sé attraverso i meccanismi di stock option. Ha una visione di breve termine dell’azienda che controlla con strumenti sempre più sofisticati e ravvicinati sul piano temporale come i report trimestrali e mensili.
La crisi profonda che viviamo, con un predominio della finanza come cervello dell’economia, dipende senz’altro dal predominio dei manager sugli imprenditori innovatori come è stato San Benedetto.
La problematica si è riflessa sulla proprietà e il controllo delle imprese. La proprietà è diventata sempre più debole nel fare valere una visione di lungo periodo della sostenibilità dell’impresa, lasciando il potere in mano ai manager fabbricati nelle scuole di direzione aziendale. L’esempio tipico è quello della public company in cui tanti sono proprietari ma nessuno dà gli indirizzi strategici di lungo periodo, lasciando il campo libero ai manager che hanno una visione di corto respiro.
Sul ruolo del progresso tecnico come motore dello sviluppo economico è importante per noi ricordare il bellissimo capitolo sesto della Caritas in veritate di Benedetto XVI, dedicato allo sviluppo dei popoli e la tecnica. Al punto 69 della Caritas in veritate, si legge: “La tecnica permette di dominare la materia, di ridurre i rischi, di risparmiare fatica, di migliorare le condizioni di vita. Essa risponde alla stessa vocazione del lavoro umano: nella tecnica, vista come opera del proprio genio, l’uomo riconosce se stesso e realizza la propria umanità”.
Nelle abbazie benedettine non esiste naturalmente, perché tutti sono fratelli in Cristo, il conflitto tra capitale e lavoro. Anzi i due fattori della produzione collaborano e cooperano per lo sviluppo e la costruzione del bene comune. Non così nel 1800 in cui si è verificato un grave conflitto tra capitale e lavoro con la famosa questione operaia. Leone XIII alza la sua autorevole voce contro questa situazione e pubblica nel 1891 la Rerum novarum. Vengono suggerite forme di collaborazione tra capitale e lavoro, come la partecipazione agli utili, l’azionariato dei dipendenti, i consigli di gestione e di sorveglianza e di altre forme di cooperazione.
Sono esortazioni raccolte soprattutto dal Beato Giuseppe Toniolo con l’istituzione delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani.
Lo strumento della partecipazione viene ripreso con vigore da Pio XI nella grande Enciclica sociale Quadragesimo anno del 1931. Nell’enciclica si auspica il passaggio dal concetto di contratto di lavoro al concetto di contratto di società. Esso verrà ripresa nel 1949 da Pio XII in uno dei suoi radiomessaggi.
Ma nel nostro paese la cultura della partecipazione stenta molto a diffondersi, nonostante le esortazioni ad esempio del Cardinale Giuseppe Siri che vedrà solo qualche caso nascere nella sua diocesi di Genova.
Storia diversa si verifica in Germania, dove la cultura e la pratica della partecipazione si diffondono in profondità soprattutto per opera di grandi menti come l’arcivescovo di Magonza von Ketteler e di W. Ropke. Sono qui le radici dell’economia sociale di mercato che rappresenta la grande forza della Germania nell’Unione Europea e nell’economia globale.
Da noi la cultura della partecipazione stenta ad attecchire per motivi fondamentalmente ideologici, vedendo il lavoratore e l’imprenditore come antagonisti i cui rapporti sono regolati dal contratto di lavoro e dalle sue clausole da rispettare, pena l’attivazione di varie forme di lotta sindacale. Tale mondo sta lentamente cambiando, anche sotto la spinta di provvedimenti come il Jobs Act e la legge di stabilità. Dalla contrattazione collettiva nazionale si sta passando a quella aziendale, con una visione di collaborazione tra capitale e lavoro per la sosteniblità dell’impresa in un’ottica di lungo periodo. Abbiamo esempi di questo tipo con la FCA (Fiat Chrysler Automobiles) che ha stipulato un contratto unico aziendale e introdotto forme leggere di partecipazione agli utili dei dipendenti. Si tratta, come detto, di forme leggere se si pensa che la partecipazione agli utili in Mercedes è di 6 mila euro all’anno per dipendente.
Grande sviluppo sta invece avendo il welfare aziendale sussidiario, anche sotto la spinta di incentivi fiscali introdotti con la legge di stabilità che favoriscono sia l’azienda che i dipendenti. Le forme di welfare sono molteplici e possono andare dalle polizze sanitarie integrative, alle navette aziendali e altri strumenti che favoriscono la conciliazione tra lavoro e impegni familiari, soprattutto da parte della donna.
Il welfare aziendale sussidiario, diffuso non solo nella grande impresa ma anche nelle piccole e medie aziende, costituisce anche una forma di integrazione della remunerazione dei dipendenti, da noi relativamente bassa, esente dal peso fiscale.
In definitiva, l’insegnamento di San Benedetto come imprenditore innovatore per lo sviluppo e la costruzione del bene comune, è di grandissima importanza per noi dell’Ucid che guardiamo alle strategie di impresa per il bene comune. Il libro di Alessandro Paglia costituisce, a questo riguardo, uno strumento interessantissimo, da conoscere e da diffondere.
La letteratura aziendale e manageriale europea ed italiana non è certamente inferiore a quella anglosassone, nonostante il suo immeritato dominio nelle nostre università e anche nel modo di pensare di molte nostre aziende. Pensiamo per un momento alla nostra scuola di economia aziendale e ai suoi grandi maestri.
San Benedetto con la sua Regola di 1500 anni fa deve costituire per noi l’anima per un nuovo riscatto di una coscienza imprenditoriale per la costruzione del bene comune, abitando l’impresa con sguardo di fede.
Il bel libro di Alessandro Paglia ci può guidare in questo cammino.