La nuova presidenza Trump e la politica monetaria americana
Giovanni Scanagatta*
Come potrà cambiare la politica monetaria americana con la nuova Presidenza Trump? Occorre innanzi tutto premettere l’indipendenza della Federal reserve americana dal governo. Però il governo ha molti modi per condizionarla, a parte la scadenza della Presidenza che nel caso di Jerome Powell avverrà nel 2026. Ultimamente la FED ha abbassato i tassi di interesse di un quarto di punto percentuale e l’inflazione viaggia intorno al 2%, cioè al valore indicato come target.
Trump, nella sua nuova presidenza, si trova davanti, tra gli altri, a due importanti problemi: il deficit della bilancia commerciale che non accenna a ridursi e il deficit del bilancio pubblico (deficit gemelli). L’indebitamento pubblico è molto elevato e l’incidenza degli interessi pagati sul prodotto interno lordo supera quella delle spesa per la difesa.
Per fronteggiare il deficit della bilancia commerciale, Trump ha già usato, nel suo primo mandato, l’introduzione di dazi che però hanno l’effetto di spingere verso l’alto l’inflazione. C’è poi il tasso di cambio del dollaro che dovrebbe deprezzarsi per contribuire al riequilibrio della bilancia commerciale americana. Anche questa misura tende a fare crescere l’inflazione importata. Quindi due spinte nella stessa direzione che tendono a confliggere con la politica della FED per il controllo del tasso di inflazione attraverso un rialzo dei tassi di interesse di policy. E questo difficilmente sarà accettato dalla nuova Presidenza Trump.
Ma guardiamo i dati dopo l’elezione di Donald Trump a nuovo presidente degli Stati Uniti d’America. Il dollaro si è notevolmente rafforzato rispetto all’euro con guadagni superiori al 5%. Parallelamente abbiamo assistito ad un indebolimento dei prezzi dell’oro, con perdite sempre intorno al 5%. Il Presidente della FED, Jerome Powell, ha inoltre affermato che sarà in futuro cauto nel diminuire i tassi di interesse e questo ha indebolito in modo le sensibile le quotazioni della borsa americana. Un quadro quindi che in futuro non potrà piacere a Trump.
Insomma si potrebbe aprire una nuova era con la Presidenza Trump per quanto riguarda il ruolo del dollaro e della Banca Centrale. Un’eccessiva domanda di dollari come mezzo intermediario degli scambi internazionali e come riserva di valore potrebbe rafforzare troppo il dollaro e questo va contro il desiderio del nuovo presidente di ridurre il deficit commerciale con l’estero aumentando le esportazioni e riportando quindi a casa una quota delle produzioni americane delocalizzate all’estero (reshoring). Potrebbero pertanto essere viste con favore le transazioni in criptovalute, a partire dal Bitcoin. Si tratta di una moneta creata dai privati e quindi da un mondo indipendente dalle banche centrali e dal controllo della politica monetaria. Sembra questa una tendenza favorita dal responsabile dell’efficienza amministrativa del nuovo governo di Trump. E’ interessante notare che le quotazioni dei Bitcoin sono salite da 38.292 euro del primo gennaio del 2024 a 84.952 euro del 15 novembre, un aumento quindi, in meno di un anno. del 122%. Una performance superiore a quella delle quotazioni dell’oro, già del tutto eccezionale. Per questo alcuni considerano le criptovalute dei “beni rifugio” come sono l’oro e gli investimenti immobiliari. C’è tuttavia da dire che le quotazioni delle criptovalute sono molto volatili, molto più di quelle dell’oro che mostrano invece un preciso trend di crescita negli ultimi 53 anni, a partire dalla dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro del 1971.
Storicamente possiamo osservare nel 1800 una molteplicità di banche centrali di emissione, un principio di tipo concorrenziale, per poi passare dal 1900 al monopolio con un’unica banca centrale di emissione responsabile della politica monetaria. Con le criptovalute, non solo si tende a distruggere il monopolio delle banche centrali di emissione e della politica monetaria ma si privatizza la moneta secondo un principio di concorrenza. Attualmente ci sono infatti diverse criptovalute, superiori ad un migliaio.
Si tratta, in definitiva, di un principio propugnato dal grande economista austriaco Hayek, togliendo allo Stato il monopolio della creazione e della gestione della moneta. Ma anche del premio Nobel per l’economia, Milton Friedman, e di Brunner che suggerivano la necessità di un aumento predeterminato della crescita dell’offerta di moneta o di un suo aumento entro percentuali predeterminate, togliendo la discrezionalità alle banche centrali a favore di regole fisse di politica monetaria.
Professore di politica economica e monetaria all’Università di Roma “La Sapienza”