Crisi climatica, ambientale e pensiero cattolico

di Gian Luca Galletti

  • Siamo sicuri che la crisi climatica e ambientale sia davvero ancora un problema in questa congiuntura storico-politica? Siamo sicuri di non essere – noi che ce ne occupiamo – scaduti al ruolo di una retroguardia, un gruppetto girato dalla parte sbagliata della storia? Siamo certi che l’ambiente non si riduca a un tema da convegno per cultori o appassionati (come la storia classica, la teologia tomista…) e la sfida ambientale non abbia già smesso di “fare politica”, di produrre decisioni e direzioni nelle stanze dei bottoni? Ora infatti sembrano prevalere altre priorità.
  • Non vorrei che l’apice dell’interesse verso la questione climatica e ambientale fosse già raggiunto e superato con la prima Commissione Von Der Leyen. Cosa può una minaccia a 30-50-70 anni come quella che proviene dal clima impazzito, contro la minaccia di una guerra alle porte dell’Europa, quella che dilania l’Ucraina, o di una guerra commerciale interna all’Occidente, quando – tanto più in una regione come la nostra – si è lavorato per penetrare mercati internazionali che oggi minacciano di chiudersi a riccio, per situarsi in filiere globali del valore che oggi mostrano le prime crepe e minacciano di sgretolarsi. In metafora, chi mette i pannelli solari sul tetto della casa di cui teme il crollo? Non vorrei essere disfattista, tutt’altro, ma occorre che abbiamo ben chiaro – noi che organizziamo e partecipiamo a convegni sull’ambiente – che anche qui in Europa la direzione del mondo potrebbe nei fatti, al di là delle dichiarazioni, orientarsi all’evitamento del problema, non alla sua soluzione. Basti guardare quanto sono cambiate le agende politiche.
  • Politicamente, ho avuto il privilegio di partecipare alla fase istituzionale che potremmo definire di “individuazione del problema ambientale” o, meglio, del suo inserimento dentro le agende politiche nazionali e sovrannazionali. È stato il lavoro delle Conferences of parties (Cop), il cui approdo più ampio e lungimirante è stato grazie alla Cop 21, nel 2015, l’Accordo di Parigi.
  • Si era andato costruendo un consenso ampio – ben oltre l’enclave europea – verso orientamenti comuni e azioni politiche concrete e coordinate di risposta al problema del cambiamento climatico indotto dalle attività umane climalteranti. Si era riusciti a creare consenso intorno ad alcuni obiettivi, in primis la riduzione delle emissioni di CO2, quanto ai metodi e alla concretezza degli impegni sapevamo di doverci lavorare ancora molto, ma con la sottoscrizione dell’Agenda 2030 da parte di 193 Paesi nel mondo la strada sembrava aperta.
  • Fu una delle grandi vittorie, per così dire, del pensiero cattolico. Papa Francesco aveva pubblicato proprio nel 2015 la Laudato Si’, che rimane un architrave del pensiero (confessionale e laico) sulla sostenibilità, perché ne lega le differenti dimensioni: ambientale e sociale, ma anche economica e politica, mostrando l’urgenza di una consapevolezza diffusa per la costruzione di consenso. Una sostenibilità integrale, umana, quella proposta dal Papa. Un modo responsabile di stare sul pianeta, come per mostrare la via ad un’umanità “planetaria”, capace di percepirsi come unico corpo vivente, in rapporto gli uni con gli altri e con il contesto ambientale in cui siamo inseriti, al di là di nazionalismi, divisioni, partigianerie. Ripeto: su queste basi sembravano esserci le condizioni per una vera cooperazione mondiale, in cui l’Europa avrebbe fatto da traino politico e in cui tra i maîtres à penser più riconosciuti vi sarebbe stato proprio il Papa, che sembrava assumere un ruolo di guida morale “sovraconfessionale”, per così dire, ben oltre l’appartenenza alla Chiesa.
  • Sarebbe stata una vittoria anche per la costruzione europea, in cui sembrava costruirsi prima che altrove il capitale politico per la trasformazione dei sistemi produttivi e degli stili di vita sulla base di una cooperazione già rodata, rigenerando al contempo il progetto europeo intorno ad una nuova sfida comune.
  • Si trattava di uscire dal pensiero utopico e tradurre in politica. Sono stato tra i critici del Green Deal di Von Der Leyen, che da certi punti di vista adottava una prospettiva ingenua, sottostimando l’impatto dei cambiamenti indotti sulle filiere, senza tenere conto della necessità di politiche industriali ampiamente condivise e rifiutando di confrontarsi con le conseguenze temute dalle imprese. Dall’altra parte, il piano proposto dalla Commissione non metteva sufficientemente a fuoco il problema strategico, relativo alle tecnologie e alle materie prime della transizione ecologica, favorendo dinamiche di eccessiva dipendenza. Sul metodo e sul merito si può discutere. Oggi siamo arrivati al rischio di mettere in radicale discussione i fini.
  • Solo 4 anni fa, in uscita dalla pandemia, si discuteva di debito comune europeo per finanziare la transizione ecologica (si affacciava il progetto di un piano europeo da 1.000 miliardi in 10 anni, per farsi trovare pronti allo scadere del 2030). Oggi si sovrappone l’obiettivo dell’autonomia strategica, della sicurezza delle catene di approvvigionamento, della difesa comune e già si parla di 800 miliardi, da trovarsi in tempi decisamente più ristretti, per far fronte a quella che sembra divenuta un’urgenza geopolitica primaria, prevalente rispetto a tutte le intenzionalità ecologiche e sociali precedenti. Una risposta ad un pericolo di vita. Tanto che si è introdotta l’idea di piegare agli scopi bellici anche le risorse della politica di coesione europea, finora volta a obiettivi di promozione sociale, sostegno all’inclusione e riduzione delle diseguaglianze. Fondamentale per molti territori.
  • Nello scorso decennio, le imprese hanno creduto agli orizzonti della sostenibilità, hanno compreso la temperie culturale fin dal suo inizio – molti coloro che sono arrivati in anticipo – e hanno iniziato a trasformare gli obiettivi di sostenibilità in business. Tante sono le aziende anche nel nostro territorio che hanno adottato politiche green, garantendosi il risparmio di risorse (o un minor impatto dell’inflazione dei beni energetici); hanno fiutato nuovi mercati in espansione, adottato tecnologie innovative con effetti dirompenti, generando un effetto di trascinamento sull’intero mercato. Tanti, certamente, anche coloro che hanno tirato il freno a mano, spiazzati dalla rapidità del cambiamento. Nel complesso però possiamo dire che gli scorsi anni – alla Laudato Si’, alla Cop 21, da Parigi all’Agenda 2030 – si è creato un movimento d’opinione che è stato capace di produrre iniziative concrete da parte del tessuto produttivo. Con successo si sono tradotti i valori della sostenibilità in strategia di mercato.
  • Tanto che nel 2019 anche la Business Roundtable americana, composta da oltre 180 Ceo di grandi aziende globali, è arrivata a emettere una dichiarazione che ci è apparsa di portata storica, riconoscendo che le imprese hanno come primo obiettivo la generazione di valore a lungo termine, condiviso con dipendenti e comunità. Una scelta di campo netta tra shareholders capitalism (capitalismo degli azionisti) e stakeholders capitalism (capitalismo dei portatori d’interesse). Una vera rivoluzione degli scopi aziendali (la cosiddetta “purpose corporate revolution”, rivoluzione degli obiettivi aziendali): dal profitto a tutti i costi predicato da Milton Friedman al valore condiviso promosso da Michael Porter e alla responsabilità sociale di Robert Freeman. L’asse del mondo stava cambiando angolazione, anche nel centro del capitalismo globale.
  • In questa temperie, il pensiero della dottrina sociale cattolica, che qualcuno ha definito una “scienza dell’equilibrio”, ha ripreso vigore e centralità, ben oltre i confini della Chiesa, in quanto tradizione civile del Paese.
  • Nel Novecento hanno prevalso letture economiche e politiche contrappositive: capitale contro lavoro, profitti contro redistribuzione, stato contro mercato. La dottrina sociale invece mette al centro il metodo della cooperazione tra forze sociali: capitale insieme al lavoro, i profitti per l’equa redistribuzione, lo stato complementare al mercato…e così via, favorendo un dialogo sociale costruttivo, capace di generare una cooperazione ampia come quella necessaria alla transizione ecologica e all’implementazione di politiche di sostenibilità.
  • Quanto alla sostenibilità, si è avviato nel mondo dell’impresa quello che possiamo chiamare “effetto Boltansky”, dal nome del sociologo che nella sua opera principale “Il nuovo spirito del capitalismo”, aveva intuito la capacità del sistema capitalistico di re-interpretare tutti i valori, dando ad ogni sistema valoriale una traduzione di mercato. La natura proteiforme del capitalismo, mosso dagli “animal spirits” imprenditoriali, per dirla con Adam Smith, aveva incominciato a reinterpretare il proprio business alla luce dei nuovi criteri di sostenibilità. Ri-orientando così – tra tante contraddizioni, certo – il sistema economico verso i nuovi valori della transizione. Si trattava di una trasformazione favorevole, che sfruttava positivamente la capacità adattiva delle imprese e del sistema di mercato.
  • Oggi rischiamo di assistere ad una trasformazione analoga, ma in senso negativo: se i nuovi valori sono quelli ispirati dalla sfida geopolitica, piuttosto che dalla sfida climatica, rischiamo di vedere il sistema produttivo riallinearsi ad essi. Per comprendere la velocità del cambiamento basti considerare l’immediatezza dell’allineamento ai valori promossi dalla nuova amministrazione americana da parte delle Big Tech americane, in perfetta contraddizione rispetto ai valori sostenuti dalle stesse aziende fino al giorno prima sotto l’amministrazione democratica (dall’inclusione, all’ambiente, alle politiche per la parità di genere, etc). Una giravolta ostentata a favore di telecamera, senza alcun imbarazzo. Una giravolta business-oriented.
  • Ovviamente, nessuna questione di principio: le aziende italiane che lavorano nel settore della difesa servono. Un mondo demilitarizzato ci piacerebbe, ma non è (ancora) all’orizzonte. E finché la guerra resterà costituzionalmente ripudiata dal nostro Paese come strumento di offesa e di risoluzione delle controversie internazionali, non siamo legittimati a proporre obiezioni morali alle aziende che si trovano nella filiera della difesa, a partire da Leonardo. Diverso però è pensare che gli sforzi europei debbano concentrarsi prioritariamente (o totalmente) in questo ambito.
  • Ciò che possiamo temere è la dimensione che il filosofo Nietzche individuava come nichilismo: “la perdita di valore di tutti i valori fin qui creduti”, che precede trasformazione radicale dei valori, tipica di ogni cambiamento d’epoca. Vorremmo che il ritorno della geopolitica e della politica di potenza sulla scena europea e mondiale si limitasse ad un temporale passeggero e non finisse per dare forma a questo XXI secolo, in cui negli anni ’10 e ‘20 ci eravamo illusi di mettere le basi per una cooperazione mondiale finalizzata alla salvaguardia dell’ambiente e alla riduzione delle diseguaglianze.
  • Il rischio è che il movente economico si aggiunga alla temperie geopolitica, così come qualche anno fa si aggiungeva, potenziandolo, alla direzione politica condivisa sulla sostenibilità. Papa Francesco ci ha messi in guardia, con una domanda: “si fanno le armi per fare le guerre oppure si fanno le guerre per fare le armi?” Quanto lo scivolamento verso il baratro bellicista può aumentare il desiderio del cieco profitto e quanto questo desiderio cieco e senza domani può agevolare lo scivolamento verso scenari di guerra? Ricordiamoci che l’impresa è animata dai cosiddetti “spiriti animali” (Adam Smith), quegli istinti che permettono di fiutare l’affare e predisporsi alla caccia. Sta quindi alla politica e alla società civile “civilizzare l’impresa, civilizzare il mercato”, per dirla con il prof. Zamagni, conducendo tali istinti economici verso una dimensione costruttiva, comunitaria, sostenibile, in una parola, civile.
  • Dobbiamo chiederci a partire da quali valori e da quali obiettivi vogliamo fare l’Europa? Abbiamo ascoltato dichiarazioni di tutti i tipi negli ultimi giorni. A prescindere dal dotarsi o meno di una difesa comune, di un esercito europeo (difficile, a farsi, almeno nel breve termine), occorre non restringere lo sguardo alla sola politica di potenza, perché la politica di potenza – il Novecento europeo lo insegna – è necessariamente chiusa in sé stessa, non concepisce altri valori, non convive con altre politiche: intende solo difendere e affermare sé stessa.
  • Se vorremo dare un futuro alle politiche di sostenibilità, non dovremo lasciarci avvolgere dai venti che soffiano nel mondo. Rimanere nel ruolo di quelli che coltivano i valori della sostenibilità, a costo di farlo da soli per un po’ di tempo, in attesa che il vento cambi. Non dimentichiamo che l’Europa nasce dal trauma della guerra per realizzare un’utopia di pace. L’Europa è in modo identitario un progetto che ha a che fare con un’idea radicale di “sostenibilità”, perché la prima parte del Novecento ci ha insegnato che l’alternativa è l’annientamento reciproco. Ricordiamolo, quando ci viene proposto di aderire a valori che contrastano con l’identità europea e con il pensiero cristiano.
  • Il ruolo che Emil Banca intende giocare sul territorio, per quello che può contare davanti alle dinamiche globali, è questo ruolo di salvaguardia e di tutela dell’orientamento dell’economia verso paradigmi di sostenibilità: il credito può essere uno strumento che orienta il mercato, se erogato in conformità con obiettivi ambientali, sociali, di governance, che guardino alla sostenibilità. Le imprese emiliane non stanno facendo passi indietro, a quanto vediamo, e anche se la Commissione Europea si mostra oggi meno determinata di ieri nel promuovere i piani di transizione – oggi il sistema produttivo sembra continuare a tenere a mente gli impegni presi con il 2030.
  • Nello scorso decennio dobbiamo riconoscerci il merito, come sistema, di aver creato una connessione forte tra sostenibilità e attività d’impresa, una connessione che lega agli obiettivi al di là degli urti e delle onde di questo periodo. La connessione è la convenienza di mercato, il movente economico, di cui accennavamo prima. La sostenibilità è stata vista come un’occasione generativa di opportunità: il credito costa meno e viene erogato più facilmente se sei sostenibile, il premio assicurativo cala, i capitali di rischio si reperiscono con minor difficoltà, le commesse e i fondi pubblici prevedono premialità che facilitano l’aggiudicazione, per le imprese sostenibili. Il sistema è decisamente imperfetto, certo, ma la creazione di incentivi in relazione alla sostenibilità sono stati creati.
  • In particolare, la comunità scientifica – soprattutto grazie ai suoi divulgatori, come Luca Mercalli – ci hanno reso difficile evitare il tema, costruendo – tra tanti moti di rigetto – un pensiero resiliente a negazionismi e benaltrismi. Non capita mai in una riunione di imprenditori, anche informale, che si neghi la questione ambientale e la sua importanza. Semmai si diverge sulle possibili soluzioni: il dibattito sull’idrogeno, quello sul nucleare, sono solo gli ultimi fronti di discussione che riguardano da vicino il territorio. Nessuno nega la straordinarietà degli eventi atmosferici estremi, sia per frequenza, sia per intensità, quand’essi si abbattono sul territorio.
  • Per concludere voglio citare ancora Papa Francesco e le sue lungimiranti parole sulla debolezza della politica internazionale. A fronte dell’innegabile crisi della diplomazia internazionale rispetto al cambiamento climatico globale, Papa Francesco avanza delle proposte, orientate a ripensare il multilateralismo in un’ottica maggiormente inclusiva delle forze della società civile, “un multilateralismo dal basso e non semplicemente deciso dalle élite del potere”. Non si tratta di sostituire la politica, sottolinea il pontefice, ma stabilire “una nuova procedura per il processo decisionale”. Insomma, servono spazi di conversazione, consultazione, arbitrato, risoluzione dei conflitti, supervisione e, in sintesi, una sorta di maggiore democratizzazione nella sfera globale, per esprimere e includere le diverse situazioni. “Non sarà più utile sostenere istituzioni che preservino i diritti dei più forti senza occuparsi dei diritti di tutti”. Perché, come accaduto con la pandemia, prosegue Papa Francesco “tutto è collegato. E nessuno si salva da solo”.